La governance ESG fra prassi e obblighi normativi – Altalex

La governance ESG fra prassi e obblighi normativi – Altalex

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La gestione della sostenibilità aziendale ha nella governance societaria il suo perno, che negli anni ha visto e sta vedendo mutare la sua configurazione in chiave ESG e ciò in considerazione principalmente dei nuovi obblighi normativi e della trasformazione in atto dell’attuale sistema economico verso la stakeholder economy. Di per sé, la rilevanza dei profili di sostenibilità – principalmente socio-ambientale- comporta un ampliamento degli interessi, delle opportunità e dei rischi che il consiglio di amministrazione deve considerare, valutare e integrare nelle strategie e nella definizione della corporate governance, comprensiva dei suoi presidi di risk assessment e risk managment.

Non ci può essere reale integrazione dei fattori di sostenibilità nel modello di business e nel piano industriale di una azienda senza la loro integrazione nella governance societaria; questo perché prendere in considerazione i fattori ESG nell’attività di impresa significa avere un approccio che erode la distinzione tradizionale tra un modello di governance aziendale, incentrato sui rischi finanziari, e di governo societario, improntato alla gestione anche dei rischi non finanziari e orientato non solo verso gli azionisti, ma anche verso ulteriori stakeholder. Non è quindi un caso che la “buona governance” costituisce un presupposto richiesto dagli investitori per il compimento di Investimenti Sostenibili (cfr. articolo 2 n. 17 del Regolamento UE n. 2088/2019 [“SFDR”]) ed anche Ecosostenibili e viene definita nel Regolamento SFDR come un assetto che si compone di “strutture di gestione solide, relazioni con il personale, remunerazione del personale e rispetto degli obblighi fiscali”.

Ai sensi del Regolamento UE n. 2020/852 (“Tassonomia”), gli investimenti ecosostenibili sono quegli investimenti in attività economiche che: a) contribuiscono in modo sostanziale al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali di cui all’articolo 9 del Regolamento Tassonomia, b) non arrecano un danno significativo a nessuno di detti obiettivi e c) sono svolte nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia che consistono nel rispetto delle linee guida dell’OCSE per le imprese multinazionali e ai principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, compresi i principi e i diritti enunciati nelle otto convenzioni fondamentali dell’ILO sui principi e i diritti fondamentali della Carta internazionale dei diritti umani.

La “solidità” di una buona governance passa per organi collegiali, definizione di deleghe e poteri, comitati endo ed eso consiliari e un sistema di riporto e informativa che sia funzionale anche alla gestione dei rischi ESG.

Ai sensi dell’articolo 2, n. 22 del Regolamento SFDR “un evento o una condizione di tipo ambientale, sociale o di governance che, se si verifica, potrebbe provocare un significativo impatto negativo effettivo o potenziale sul valore dell’investimento”.

La governance integrata ESG oggi diventa strategia ed essenziale per le grandi aziende e per le PMI e questo sia per un loro coinvolgimento diretto o indiretto nell’alveo della Direttiva (UE) 2022/2464 (“CSRD”) sulla reportistica di sostenibilità, sia per l’attenzione degli operatori finanziari che associano la governance ESG ad assetti organizzativi adeguatamente strutturati per la gestione anche dei rischi di sostenibilità. Una governance poco “sostenibile” può infatti di per sé rappresentare un fattore di rischio: se si pensa che un codice etico inadeguato o una mancanza di politiche anti-riciclaggio o ancora di politiche di cybersecurity possono ostacolare la capacità di generare rendimenti positivi e innescare rischi di sanzioni economiche o anche di tipo reputazionale.

La Direttiva CSRD ha un impatto diretto sulla governance non solo per i profili della doppia materialità e tutto quanto ne consegue, ma anche sulla trasparenza del governo societario, come evidenziato negli standard di rendicontazione European Sustainability Reporting Standards (“ESRS”) emanati dall’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) applicabili alla rendicontazione di sostenibilità dal 2024. Le aziende che rientrano nel perimetro della Direttiva CSRD dovranno necessariamente attrezzarsi per rendere organizzati e trasparenti i processi di governance e tanto per poterne fornire le informazioni rilevanti, che dovranno essere rendicontate sulla base degli standard. È bene chiarire che gli ESRS non impongono alcun obbligo di condotta per quanto riguarda il dovere di diligenza, né ampliano o modificano il ruolo degli organi di amministrazione, direzione o controllo dell’impresa per quanto riguarda l’esercizio del dovere di diligenza. Entrando nello specifico, lo standard ESRS 2 stabilisce obblighi di disclosure per le informazioni che devono essere fornite dall’impresa a livello generale per tutti i temi della sostenibilità sulla governance degli ambiti di rendicontazione, sulla strategia, sulla gestione di impatti, rischi e opportunità e su metriche e obiettivi. In particolare, occorre fornire informazioni riguardanti:

– la composizione degli organi di amministrazione, gestione e supervisione (“OAGS”), compresa la diversità, i ruoli, le responsabilità e l’accesso alle competenze in materia di sostenibilità;

– le modalità con cui gli OAGS vengono informati sulle questioni di sostenibilità e come quest’ultime sono state affrontate;

– l’integrazione delle performance legate alla sostenibilità nei sistemi di incentivazione e relativo impatto sulle politiche retributive;

– il processo di due diligence;

– la gestione del rischio e controlli interni sul processo di rendicontazione.

Lo standard ESRS G1 precisa, inoltre, gli obblighi di informativa che consentono la comprensione della strategia e dell’approccio, dei processi e delle procedure dell’impresa, nonché delle sue prestazioni in materia di condotta in termini di sostenibilità. Questo principio si concentra sulle informazioni riguardanti: a) l’etica aziendale e la cultura d’impresa, compresi la lotta alla corruzione attiva e passiva, la protezione degli informatori e il benessere degli animali; b) la gestione dei rapporti con i fornitori, comprese le prassi di pagamento, in particolare per quanto riguarda i ritardi di pagamento alle piccole e medie imprese; c) le attività e gli impegni dell’impresa relativi all’esercizio della sua influenza politica, comprese le sue attività di lobbying.

Il reporting di sostenibilità ai sensi della Direttiva CSRD, in corso di recepimento nel nostro Paese, diventa parte integrante della relazione sulla gestione redatta dagli amministratori ai sensi dell’art. 2428 c.c., della quale costituisce una sezione appositamente contrassegnata, come già indicato dal decreto delegato, elaborato dal Dipartimento del Tesoro e dalla Ragioneria Generale dello Stato in consultazione fino al 18 marzo 2024. “Ne deriva che l’adozione e la pubblicazione della rendicontazione di sostenibilità avverranno secondo le tempistiche e con le modalità previste dalla normativa nazionale per l’approvazione e pubblicazione dei documenti finanziari dell’impresa, con il coinvolgimento degli organi sociali dell’impresa secondo le rispettive competenze e attribuzioni. Con riferimento alle società quotate, la nuova collocazione della rendicontazione di sostenibilità amplia, altresì, il novero dei compiti di attestazione degli organi amministrativi delegati e del dirigente preposto, dal momento che il testo di decreto delegato interviene sul dettato del comma 5 dell’articolo 154 bis del TUF estendendo l’obbligo di attestazione alla rendicontazione di sostenibilità. É, inoltre, previsto che l’impresa predisponga modalità per l’informativa ai rappresentanti dei lavoratori”.

L’integrazione ESG nella governance ha un suo impatto – che ovviamente varia a seconda delle dimensioni della società e del settore industriale di riferimento, nonché dall’applicabilità diretta o meno della Direttiva CSDR- nella composizione degli organi e nei processi decisionali, che evolvono attraverso una maggiore proceduralizzazione delle scelte, imponendo un adeguamento dei flussi informativi all’interno del consiglio di amministrazione, la cura dell’informativa pre-consiliare, i doveri informativi in capo ai delegati, il potere-dovere di chiedere informazioni in capo ai singoli consiglieri, la formalizzazione della motivazione alla base delle delibere assunte, una granulare trasparenza verso gli organi di controllo. Detto impatto avrà una portata ancora maggiore in base alla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (“CSDDD”), che stabilisce norme riguardanti le responsabilità delle grandi aziende in relazione agli impatti negativi concreti e potenziali sull’ambiente e sui diritti umani delle proprie attività di impresa, delle società controllate e lungo l’intera catena del valore (il perimetro di applicazione della CSDD comprende le imprese che contano oltre 1.000 addetti [e non più di 500 come nella precedente proposta] e un fatturato mondiale superiore a 450 milioni di euro), dopo una gestazione a dir poco lunga e complicata il testo finale della direttiva dovrebbe avvenire a metà aprile.

Nella transizione verso il nuovo paradigma economico/imprenditoriale dello stakeholder value la sostenibilità deve essere recepita come parte integrante del piano industriale e, quindi, del sistema di controllo interno e di gestione rischi, così come delle politiche di remunerazione degli amministratori, dovendo, quindi, essere integrata negli assetti organizzativi e amministrativi.

Nel caso di adesione al Codice di Corporate Governance per gli amministratori destinatari di deleghe gestionali, il Codice raccomanda che la loro remunerazione sia legata per “una parte significativa (…) al raggiungimento di specifici obiettivi di performance, anche di natura non economica” (principio 6.P.2.) e questo a maggior ragione per le società che forniscono informazioni sul Successo Sostenibile e che quindi legano la parte variabile dei compensi anche a parametri non finanziari, connessi a obiettivi ambientali o sociali.

Le diverse forme di implementazione di politiche di sostenibilità comportano, a livello di governance, la nomina di comitati ad hoc (es. il comitato ESG delle quotate EXM ma anche delle quotate EGM) o di responsabili ESG e del beneficio comune (normalmente un componente del Cda) nel caso delle Società Benefit, nonché la rilevanza del bilanciamento degli interessi dei soci e degli stakeholders per il conseguimento degli stessi, che deve essere tenuto in debito conto nel suo impatto sulla gestione aziendale.

Ai sensi del comma 376 della Legge di Bilancio 2016 “le “Società Benefit” sono società di persone o di capitali che, oltre allo scopo di lucro, perseguono una o più finalità di beneficio comune e op-erano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”.

Nelle Società Benefit, il responsabile del beneficio comune deve assicurarsi che la società sia dotata di un assetto organizzativo – di cui lo stesso è parte – in grado di rilevare fatti di gestione anche nell’ottica della sostenibilità. L’organo amministrativo dovrà, quindi, avere come obiettivo anche il rispetto delle finalità del beneficio comune, senza che quest’ultime diventino preponderanti rispetto al conseguimento del profitto. Si comprende come, lì dove l’azienda abbia assunto una qualifica di benefit e/o abbia integrato il Successo Sostenibile nel proprio oggetto sociale, l’organo amministrativo debba necessariamente integrare, nell’assetto organizzativo, organi quali i comitati ESG, sia endo che eso consiliari, i sustainability officer, ove nominati, e/o il responsabile del beneficio comune nel caso delle Società Benefit. Il coordinamento di questi organi e/o di questi soggetti, l’assetto delle loro deleghe, i processi informativi con il board e con gli altri attori dell’assetto organizzativo e amministrativo, diventano essenziali proprio per la rilevazione di quei rischi di sostenibilità, che potrebbero influire, o addirittura impattare o aggravare, i sintomi di una crisi, nonché per l’attuazione del bilanciamento degli interessi dei soci e degli altri stakeholder. Il bilanciamento è, infatti, collegato alla gestione operativa e, proprio per questo, presenta molteplici risvolti, quali la sindacabilità del processo decisionale che lo attua, nonché l’organizzazione e la messa a disposizione delle risorse e dei mezzi con cui viene di fatto implementato. In questo scenario, l’organo amministrativo deve farsi promotore non soltanto di eventuali evoluzioni del modello di amministrazione e controllo, ma anche dell’adozione di ulteriori regole organizzative di diversa natura e portata, che risultino più idonee alla struttura e alle finalità dell’impresa, la quale deve coniugare non solo i rischi ESG con quelli finanziari nel perseguimento dello scopo sociale, ma anche l’attuazione del bilanciamento dei diversi interessi in gioco. In teoria, una gestione aziendale con predilezione per gli obiettivi di sostenibilità o l’attuazione di progetti ESG friendly, con ingenti investimenti e costi magari non correttamente bilanciati e allineati in un piano industriale, potrebbe impattare negativamente sull’equilibrio economico/finanziario di un’impresa, in mancanza di un adeguato assetto di organizzazione e amministrazione in grado di programmare e monitorare il conseguimento di questi obiettivi e di rilevarne l’eventuale squilibrio. Le modalità di conseguimento del beneficio comune e l’attuazione del Successo Sostenibile – a seconda dei casi – diventano dunque di sostanziale importanza nella valutazione complessiva di una gestione aziendale e dei presidi di governance. Questi ultimi devono essere strutturati ed operare con la prospettiva, non solo dell’efficienza aziendale, ma anche della prevenzione delle situazioni di crisi. In questo senso, sta andando anche il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza che valuta l’operato degli amministratori anche rispetto all’implementazione di un adeguato assetto organizzativo, fermo restando che la responsabilità civile degli amministratori è sempre regolata dal codice civile, secondo il principio del danno patrimoniale.

Partendo dalla composizione del consiglio di amministrazione, l’adesione a politiche ESG richiede innanzitutto il rispetto del principio e, ove esistenti, di policies di diversity & inclusion, la cui ampiezza può variare a seconda delle dimensioni del board e del contesto multistakeholder, che dovrebbe valorizzare la diversità non solo in termini di genere e razza, che sono essenziali, ma anche di esperienze, competenze, nazionalità ed età. Alle quotate in mercati regolamentati si applica la Legge Golfo Mosca con l’obbligo della quota rosa in consiglio nella percentuale del 40%.

Inoltre, presidi ESG in termini di soft law sono previsti dai rinnovati principi di corporate governance dell’OCSE e dal Codice di Corporate Governance applicabile su base volontaria alle società quotate e dalle Raccomandazioni del Comitato per l’applicazione del Codice in oggetto, che introducono per le società quotate in mercati regolamentati una serie di principi e raccomandazioni: dall’inserimento in statuto del Successo Sostenibile alla organizzazione degli assetti amministrativi e di controllo secondo una logica ESG driven, ed ancora alla determinazione di pacchetti retributivi per il CEO, per gli amministratori esecutivi e il top management funzionale al perseguimento del Successo Sostenibile e correlati ad obiettivi ESG.

Ai sensi delle definizioni del Codice di Corporate Governance per Successo Sostenibile si intende “l’obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”.

Il Codice di Corporate Governance raccomanda agli emittenti quotati sui mercati regolamentati di istituire, all’interno del consiglio di amministrazione, comitati con funzioni istruttorie e consultive nelle materie che presentino maggiori profili di potenziale conflitto di interessi, quali il comitato per le nomine (principio 5.P.1.), il comitato per la remunerazione (principio 6.P.3.) e il comitato controllo e rischi (principio 7.P.3.). L’istituzione di un comitato con funzioni specifiche in materia di sostenibilità, per quanto non espressamente richiesto dal Codice, diventa strategico per fornire al consiglio di amministrazione supporto nell’analisi dei temi rilevanti per il successo sostenibile e per le politiche ESG.

L’analisi di FIN-GOV 2023, riferita alla totalità delle società quotate (incluse quelle non aderenti al Codice di Corporate Governance), prende in considerazione i comitati “sostenibilità” composti da soli amministratori (i.e. quelli a natura endo-consiliare), rilevando che essi sono presenti nel 63% delle quotate (dato in crescita rispetto al 54% del 2022 e al 47% del 2021). Lo stesso studio evidenzia, anche quest’anno, l’esistenza di una forte variabilità legata sia alla dimensione degli emittenti (un comitato sostenibilità endo-consiliare è presente nel 93% delle società grandi e solo nel 51% delle società piccole) che ai loro assetti proprietari (presenza nel 93% delle società a controllo pubblico, nel 78% delle widely held e solo nel 50% delle family firms).

La governance integrata comporta un’effettiva interrelazione fra il comitato di sostenibilità e gli altri comitati: a cominciare dal comitato nomine che deve agire sulla base di policy di D&I, il comitato remunerazione a cui fanno capo le politiche di remunerazione ESG, nonché il comitato controlli e rischi con cui attuare monitoraggi e strategie per la integrazione dei rischi ESG nel sistema di controllo e gestione dei rischi finanziari e aziendali. Quanto al rapporto con il Cda, il comitato di sostenibilità svolge un ruolo sostanziale nella definizione dei piani di sostenibilità e nella loro integrazione nel piano industriale delle aziende, così l’interrelazione e la collaborazione con il comitato di controllo e rischi è essenziale anche per un costante monitoraggio circa l’eventuale impatto delle politiche di sostenibilità sulla gestione dei rischi finanziari ed aziendali.

Nel caso delle Società Benefit, resta obbligatoria la nomina di un responsabile del beneficio comune che può essere monocratico o collegiale: in questo ultimo caso, lo stesso può coincidere con il comitato di sostenibilità; nel caso di organo monocratico, può essere scelto fra i componenti del consiglio di amministrazione.

Nell’ottica di strutturare la governance ESG sono, inoltre, consigliabili presidi rilevanti come il Modello 231, il rating di legalità nonché le diverse certificazioni che su base volontaria possono qualificare il governo societario e il sistema interno di controlli.

Il Modello 231 è uno strumento di compliance normativa volto a prevenire e/o mitigare il rischio di commissione di reati da parte dei soggetti che agiscono per conto delle società e nei limiti precisati dagli articoli 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001.

La transizione verso la sostenibilità aziendale e finanziaria è sicuramente delicata e complessa, richiedendo un cambio radicale di mentalità nella gestione societaria. L’emergenza climatica è la principale leva che ha mosso, con il caso Shell (cfr. Alta Corte di Giustizia di Londra; sentenza 12 maggio 2023; Giud.; ClientEarth c. Shell PLC e altri), il primo giudizio di responsabilità nei confronti di un organo amministrativo; la Direttiva CSDD sarà l’altro elemento rilevante che porterà ad una rilettura dei doveri degli organi societari in chiave ESG. Sul come e sul quando il caso Shell avrà il suo “effetto farfalla” nel nostro Paese non è dato saperlo, sicuramente implementare in tempi rapidi una governance integrata ESG è oggi strategico e necessario per proteggere le aziende dai rischi di sostenibilità e per consentire loro di cogliere le opportunità di uno sviluppo sostenibile.

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