La sostenibilità alimentare è un pedale – IL MONDO – IL MONDO – RIVISTA ITALIANA ILLUSTRATA DI POLITICA, ECONOMIA, CULTURA E SOCIETA’
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L’alimentazione e il suo impatto ambientale sono sempre più al centro dell’attenzione economica, politica e culturale. Malcevschi: “Niente dogmi, ma resilienza”
Sostenibilità deriva dall’inglese “sustain“, cioè il pedale del pianoforte che serve ad allungare la durata di una nota. Essere sostenibile significa, quindi, essere durevole.
L’esigenza di una crescita economica sostenibile e rispettosa dell’ambiente ha preso forma all’inizio degli anni Settanta, quando la società ha preso coscienza del fatto che il tradizionale modello di sviluppo avrebbe causato nel lungo termine il collasso dell’ecosistema terrestre. La definizione universalmente riconosciuta risale al 1987 e si trova nel cosiddetto Rapporto Brundtland, dal titolo “Our common future”, che pone l’attenzione sui principi di equità intergenerazionale e intragenerazionale. Il rapporto identifica per la prima volta la sostenibilità come la condizione di uno sviluppo in grado di «assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri».
Il concetto di sostenibilità, rispetto alle sue prime versioni, ha fatto registrare «una profonda evoluzione che, partendo da una visione centrata preminentemente sugli aspetti ecologici, è approdata verso un significato più globale, che tenesse conto, oltre che della dimensione ambientale, di quella economica e di quella sociale. I tre aspetti sono stati comunque considerati in un rapporto sinergico e sistemico e, combinati tra loro in diversa misura, sono stati impiegati per giungere a una definizione di progresso e di benessere che superasse in qualche modo le tradizionali misure della ricchezza e della crescita economica basate sul Pil», come riporta l’enciclopedia Treccani. In definitiva, la sostenibilità implica «un benessere (ambientale, sociale, economico) costante e preferibilmente crescente e la prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale».
Nel 2015, l’Assemblea generale dell’Onu ha sottoscritto l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, con obiettivi comuni su questioni cruciali, come la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico. I firmatari, all’atto della sottoscrizione, riconoscono «che sradicare la povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale ed un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile». I propositi dell’Accordo «mirano a realizzare pienamente i diritti umani di tutti e a raggiungere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione di tutte le donne e le ragazze – spiegano i sottoscrittori del documento -. Essi sono interconnessi e indivisibili e bilanciano le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: la dimensione economica, sociale ed ambientale. Gli Obiettivi e i traguardi stimoleranno nei prossimi 15 anni interventi in aree di importanza cruciale per l’umanità e il pianeta».
È importante considerare che la sostenibilità è un concetto in continuo mutamento: «Il concetto si è evoluto perché il mondo si è evoluto il mondo soprattutto si è globalizzato. E l’economia si è globalizzata – spiega Alessio Malcevschi, docente di Food sustainability per il corso di laurea “Sistema alimentare: sostenibilità, management e tecnologie” all’Università di Parma -. Questo ha comportato da una parte una facilitazione di tutta una serie di attività, movimenti di merci, beni, persone, idee, ma nel contempo ha anche creato quella che adesso viene chiamata sempre più diffusamente “poli-crisi”: noi stiamo vivendo una crisi ambientale, una economica e una sociale, che sono intrecciate tra loro e su cui poi si innesta l’aspetto demografico. Dal novembre scorso siamo 8 miliardi di persone sulla terra, nasce un bambino ogni 4 secondi; nel 2050 dovremmo essere un miliardo in più. Come sfamare queste persone? Non basta produrre di più: il cibo deve essere a un costo accessibile e, quindi, legato a un lavoro. E questa è la Food security. Per Food safety, invece, intendiamo che il cibo non sia compromesso da sostanze tossiche».
Lei ha usato prima la parola “intrecci”, che sarà il tema del festival Food & Science 2024, di cui lei è curatore scientifico. Cosa intende?
«Gli intrecci. La sostenibilità alimentare non è (solo) una scienza, è un modo nuovo di pensare. E non è necessariamente innovativo, perché contiene in sé anche elementi che arrivano dal passato. Le relazioni diventano fondamentali perché i problemi che noi abbiamo di fronte questa poli-crisi sono talmente grandi, talmente intrecciati, che il vecchio modo di pensare, riduzionista, che tende ad affrontare i problemi singolarmente, non è più né efficace né efficiente. L’Agenda 2030 pone degli impegni che devono essere affrontati singolarmente Paese per Paese, ma che non possono trovare soluzione se i Paesi non sono collegati tra di loro. L’Europa ha problemi diversi da Asia e Africa ma per risolverli è necessario che le forze in campo in ogni nazione si parlino in maniera empatica, non solo scientifica».
In occidente, alcuni dei temi in agenda sono packaging e sprechi alimentari, ad esempio, che non riguardano altri continenti. O sbaglio?
«Parliamo di un mondo complesso, e le varie componenti interagiscono in forme che non sono per definizione lineari ma che si evolvono e si evolvono nel tempo. Quindi, parlando di sostenibilità alimentare, non si tratta solamente di produrre semplicemente in maniera più rispettosa per l’ambiente, ma bisogna considerare anche la filiera alimentare. Il cibo segue una filiera complessa, che va dal produttore al trasformatore, al distributore, al consumatore. Se lo scopo della produzione agricola non è quello di sfamare ma quello di fare profitto, è ovvio che poi siamo naturalmente portati a comprare prodotti fuori stagione, che vengono da altri continenti. Nel trasporto, che impatta, i cibi vanno protetti con delle sostanze plastiche, che impattano. In sintesi, come dice la Fondazione Barilla, più noi mangiamo cose insostenibili meno sono salutari per la nostra salute e viceversa. Per quanto riguarda lo spreco del cibo, invece, la colpa è del consumatore, che, in media, butta il 30% di quanto acquistato. Diverso il problema in Africa, dove non c’è spreco ma perdita, a causa delle difficoltà nella catena del freddo. Come già dicevamo, un quadro complesso, dove nessuno, né consumatore né produttore, può ritenersi elemento a sé stante. Le recenti proteste degli agricoltori, ad esempio, non sono sostenibili: l’agricoltura di oggi produce il 30% delle emissioni di gas serra».
In questo contesto, che tipo di professionisti vengono formati nel corso di laurea dove lei insegna? Nel senso, lei è un laureato in Chimica con dottorato in Biologia molecolare però sta parlando come un umanista…
«Bisogna saper comunicare. La sostenibilità non è solo una cosa tecnica, è un pensiero, è un approccio, è un cambio di paradigma. E la difficoltà nel comunicarlo non è tanto a livello di studenti, ma di insegnanti. Il sistema universitario, non solo italiano ma in generale, è nato e cresciuto e si è sviluppato con delle eccellenze assolutamente strabilianti ma basate molto sulla specializzazione. La sostenibilità va esattamente nella direzione opposta, cioè nella nell’ibridazione di saperi, che è l’unico modo per avere, forse, una chiave di lettura più adatta. Il “paradosso del lampione” di Paul Watzlawick lo spiega bene: sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa abbia perduto. “Ho perso le chiavi di casa”, risponde l’uomo, ed entrambi si mettono a cercarle. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto chiede all’uomo ubriaco se è proprio sicuro di averle perse lì. L’altro risponde: “No, non le ho perse qui, ma là dietro”, e indica un angolo buio in fondo alla strada. “Ma allora perché diamine le sta cercando qui?”; “Perché qui c’è più luce!”. Il problema è abbandonare le idee vecchie. È questo la vera sfida. Però non bisogna farne un dogma, se no anche la sostenibilità diventa un mantra. Tant’è che ormai ci parla di sostenibilità anche a sproposito: si parla di turismo sostenibile, di aziende sostenibili, di lusso sostenibile. Sul lusso ho qualche perplessità: almeno, non penso che il lusso rientri nelle categorie del bisogno».
Possiamo concludere che l’alimentazione sostenibile non è dogma ma resilienza? Come il famoso pedale?
«Sì».
di Giulia Guidi
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March 21, 2024 at 09:34AM