Il difficile adattamento dei faggi italiani al cambiamento climatico – Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile

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Il difficile adattamento dei faggi italiani al cambiamento climatico

Le faggete meridionali sembrano più resilienti alle condizioni più estreme di quelle settentrionali

[4 Aprile 2024]

Secondo lo studio “Contrasting patterns of water use efficiency and annual radial growth among European beech forests along the Italian peninsula”, pubblicato recentemente su Scientific Reports da un team di ricercatori di Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Cnr-Isafom), Istituto per la bioeconomia (Cnr-Ibe), università della Campania “Luigi Vanvitelli” e Libera università di Bolzano, che ha fornito importanti informazioni sulla capacità dei boschi di faggio in Italia di adattarsi e resistere agli effetti del cambiamento climatico, «I faggi hanno la capacità di utilizzare in modo efficiente l’acqua a loro disposizione per adattarsi alle diverse condizioni meteorologiche, adottando strategie diversificate a seconda delle condizioni ambientali in cui si trovano»..

Lo studio ha preso in esame faggete sparse in tutta Italia nel corso di un arco temporale che va dal 1965 al 2014, utilizzando indicatori chiave come l’incremento dell’area basimetrica e l’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua per valutare la salute e la risposta di questi boschi ai cambiamenti ambientali.

La principale autrice dello studio, Paulina F. Puchi del Cnr-Isafom e del Cnr-Ibe, spiega che «L’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua è la quantità di carbonio assimilata come biomassa per unità di acqua utilizzata dalla pianta durante il processo di fotosintesi, valutato misurando la composizione isotopica del carbonio negli anelli annuali degli alberi. Se, durante un periodo di siccità, gli alberi chiudono i loro stomi per ridurre la perdita di acqua durante la fotosintesi, questo è segno di un aumento dell’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua, ma può portare alla morte della pianta a causa della carenza di carbonio nel lungo termine, perché, con gli stomi chiusi, l’ingresso del biossido di carbonio (CO2) necessario per la fotosintesi è limitato, e si riduce la capacità della pianta di produrre carboidrati e altre sostanze essenziali per la sua crescita e sopravvivenza. Viceversa, una diminuzione nell’efficienza intrinseca comporta un aumento nella traspirazione come meccanismo di sopravvivenza durante la siccità, ma può causare la formazione di bolle d’aria (embolie) nella struttura idraulica dello xilema, cioè l’insieme dei tessuti vegetali adibiti al trasporto di acqua e altre sostanze. Queste bolle d’aria bloccano i vasi dello xilema, interrompendo il trasporto efficiente di acqua e nutrienti all’interno dell’albero, con conseguenze negative sulla salute e sulla sopravvivenza a lungo termine della pianta».

Strategie diverse che mostrano come le nostre faggete siano sempre più suscettibili alla mortalità a causa di siccità estreme e dell’incremento della temperatura, trends che nel corso degli ultimi decenni sono diventati sempre più evidenti. Un’altra autrice dello studio, Giovanna Battipaglia, docente di ecologia forestale all’università della Campania “L. Vanvitelli”In particolare, aggiunge: «I risultati mettono in luce la diversità delle strategie di utilizzo dell’acqua impiegate dai boschi di faggio per adattarsi alle diverse condizioni meteorologiche, così come la variabilità nella risposta alla siccità tra le diverse popolazioni analizzate lungo un transetto latitudinale della penisola italiana».

Uno degli esiti più significativi dello studio  riguarda l’identificazione di foreste che in apparenza risultano essere in buono stato di salute, ma nelle quali i ricercatori hanno rilevato «Segnali precoci di stress a seguito di eventi climatici estremi, come la siccità del 2003, segnali che indicano una perdita di resilienza in alcuni gruppi».

L’effetto più drastico è stato rilevato in Trentino Alto Adige, dove è stata osservata anche una maggiore riduzione della crescita degli alberi rispetto ad altri siti più a sud come il Lazio, la Campania e l’area del Matese.

Una delle autrici dello studio, Daniela Dalmonech del Cnr-Isafom, sottolinea che «Nelle regioni meridionali prese in esame non abbiamo osservato una drastica riduzione nella crescita delle piante, come invece abbiamo rilevato in quelle settentrionali. Non solo: sempre al Sud è stato evidenziato un aumento dell’efficienza nell’uso dell’acqua, suggerendo una migliore risposta di adattamento di questi boschi alle condizioni ambientali più estreme».

La scoperta dei ricercatori italiani ha implicazioni significative per la gestione forestale e la conservazione della specie, non solo a livello nazionale. Alessio Collalti, responsabile del Laboratorio di Modellistica Forestale del Cnr-Isafom e ultimo autore dello studio, conclude: «In un mondo in rapida trasformazione climatica, comprendere i meccanismi di resilienza dei boschi di faggio è un primo step per sviluppare strategie efficaci, ad ampio raggio, di conservazione degli ecosistemi forestali. Questo vale per il contesto italiano, ma anche a livello globale»,

April 4, 2024 at 01:15PM

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