Con la lotta al cambiamento climatico via un lavoratore su tre? Ecco cosa dicono gli esperti – Torino Cronaca
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John Elkann, nel suo intervento all’assemblea degli azionisti di Stellantis, ha posto l’accento sulle politiche ambientali e la riduzione delle emissioni di CO2 del Gruppo – un taglio del 12% quest’anno – ed è un accenno che può sembrare terribilmente sarcastico, proprio nel momento in cui lo stabilimento storico ex Fiat, Mirafiori a Torino, si ferma di nuovo. “Il cambiamento climatico minaccia il progresso ovunque e noi sappiamo di dover fare la nostra parte attraverso le nostre attività” ha detto. Tagliando la produzione? Fermando le fabbriche per emettere meno CO2?
Nella realtà, la politica per la carbon neutrality – che Stellantis punta a raggiungere entro il 2038 – non è una scelta esclusiva del Gruppo francese-italiano, e neppure appare esclusivamente legato alla direttiva europea Fit35, quella che mette al bando i motori endotermici delle vetture entro il 2035. Secondo l’IPCC, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, i meccanismi dell’economia – non solo della produzione industriale – cambieranno sempre di più, con un prezzo salatissimo da pagare: stante la situazione attuale, il cambiamento green potrebbe tagliare il 30% dei lavoratori dell’industria su scala globale.
"La trasformazione dell’economia verso la neutralità climatica comporta sempre una certa dose di stress economico: alcuni settori e posti di lavoro scompaiono mentre altri vengono creati", spiega Johannes Stangl del Complexity Science Hub (CSH), un centro di ricerca europeo il cui team di lavoro ha testato quello che si definisce "stress produttivo". Partendo, come ha scritto Stangl stesso in uno studio pubblicato su Nature Sustainability, dal fatto che "per capire come le misure di politica climatica influenzeranno l’economia di un Paese, non è sufficiente avere dati sulle emissioni di anidride carbonica. Dobbiamo anche capire il ruolo che le aziende svolgono nell’economia".
I ricercatori hanno utilizzato un set di dati provenienti dall’Ungheria che comprende quasi 250mila aziende e oltre un milione di rapporti con i fornitori, rappresentando virtualmente l’intera economia ungherese, valutando un obiettivo di riduzione delle emissioni del 20%, con modifiche alla produzione in vari scenari.
"Nel primo scenario, abbiamo esaminato cosa sarebbe successo se si fossero prese in considerazione solo le emissioni di CO2", spiega Stefan Thurner del CSH. Per ridurre le emissioni di gas serra del 20%, i sette maggiori emettitori del Paese dovrebbero cessare le loro attività. "Nel frattempo, però, si perderebbe circa il 29% dei posti di lavoro e il 32% della produzione economica del Paese. L’idea è del tutto irrealistica", afferma Thurner. Inoltre, se si considerano le emissioni di gas serra e le dimensioni delle aziende, si avrebbero gravi conseguenze economiche.
"Due fattori sono cruciali: le emissioni di CO2 di un’azienda e i rischi sistemici ad essa associati, ossia il ruolo che l’impresa svolge nella rete di fornitura", spiega Stangl. Prendendo in considerazione questi due fattori – le emissioni di gas serra di un’azienda e il suo indice di rischio per l’economia del Paese – i ricercatori hanno calcolato una nuova classifica delle aziende con grandi emissioni rispetto al loro impatto economico. Secondo la nuova classifica, una riduzione del 20% delle emissioni di CO2 richiederebbe la cessazione delle attività delle prime 23 aziende della lista. Questo, tuttavia, comporterebbe solo una perdita del 2% dei posti di lavoro e del 2% della produzione economica.
Appare ovvio che, di fronte a questi piani, ogni azienda cercherebbe di rivedere i propri standard, cercando anche nuovi fornitori o clienti. Fuori dall’Ungheria, possiamo capire le mosse di Stellantis, per esempio, sempre secondo le parole di John Elkann: "Complessivamente, nel 2023, abbiamo ridotto il nostro consumo energetico del 5,9%, anche con un livello di produzione aumentato del 9,1% rispetto al 2022. Ciò equivale a 2,3 megawattora per veicolo prodotto contro i 2,7 megawattora del 2022. L’anno scorso, l’elettricità da fonti rinnovabili ha rappresentato circa il 12,6% dell’approvvigionamento energetico totale, contro il 7,3% del 2021. Nel 2023, il 58% dell’elettricità utilizzata era decarbonizzata, contro il 45% del 2021".
A questo si aggiunge l’attività dell’hub Sustainera, per l’economia circolare, attivato proprio a Mirafiori: nel corso dei primi mesi di funzionamento, sono stati ben 2 milioni le componenti riciclate da vecchi autoveicoli e, spesso, reimmessi nel circolo produttivo. C’è poi l’Amazon Forest Carbon Sink in Brasile, per il ripristino della biodiversità e la riforestazione. Veri cambiamenti o semplice greenwashing?
A questo non c’è una risposta. Di una cosa sono certi gli esperti, nelle loro conclusioni: adottare politiche climatiche generali non basta, anzi può provocare gravi danni (l’imposizione della FIT35 sembra poter essere letta in questo modo, avendo obbligato di fatto i produttori ad accelerare la transizione all’elettrico che, al momento, è un flop economico come potrebbero dire anche in Tesla che pure è americana: il colosso di Elon Musk ha annunciato 15mila licenziamenti). Occorre prima valutare il tessuto produttivo del Paese e l’impatto delle politiche sull’attività sia della singola azienda sia dei suoi partner. L’economia dovrà quindi essere ridisegnata, se si vorrà conciliare la salvezza del pianeta e quella dei suoi abitanti/lavoratori. Anche nella più ottimistica previsione per cui, a fronte di una perdita di posti di lavoro tradizionali, possano crearsene di nuovi, derivanti dalla nuova economia. Serve un "cambiamento rapido e di vasta portata" è l’ammonimento del team di esperti.
April 17, 2024 at 08:07AM