Sella Insights – Sella Insights
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Viviamo in un mondo che corre a velocità aumentata rispetto al passato e che spesso ci impedisce di comprendere e decodificare fenomeni nuovi. Un mondo connesso e al tempo stesso interconnesso, le cui azioni possono determinare reazioni imprevedibili. Non è un qualcosa di nuovo. Già negli anni ’70 il matematico e meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz aveva teorizzato come un batter d’ali di una farfalla in Brasile possa provocare un tornado in Texas. Oggi, a distanza di cinquant’anni, questi cambiamenti repentini di scenario in aggiornamento continuo sono accelerati dalla forza della rete e dalle connessioni senza soluzione di continuità di chat e social media. Eppure abbiamo necessità di fotografare quello che avviene, di scattare un’istantanea seppur sfocata perché in movimento, di rallentare per poter ragionare sui trend emergenti internazionali che stanno riscrivendo prodotti, servizi, visioni, relazioni. Questa è il senso della nostra nuova rubrica Insights. Si tratta di contenuti di approfondimento in logica longform. Con appuntamenti ricorrenti mensili vi proporremo racconti approfonditi su alcuni temi chiave. Un modo per comprendere quello che sta avvenendo intorno a noi e per raccogliere le sfide future che riguardano persone, imprese, comunità. Buona lettura.
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La storia che stiamo per raccontare fa letteralmente il giro del pianeta. Nasce sui banchi universitari australiani, si sposta in quegli uffici svizzeri crocevia di culture e poi approda in ogni angolo del mondo. È una storia di spazi e di tempi. Tutto nasce nei primi anni Duemila con i primi movimenti ambientalisti guidati dai giovani studenti e poi nei decenni arriva a conquistare gli headquarter di aziende grandi e piccole, a cominciare da quelle finanziarie. È anche la storia di un acronimo diventato riferimento condiviso e globale delle politiche ambientali e sociali messe in campo per la salvaguardia del pianeta. Perché l’ESG – è questo l’acronimo di cui stiamo parlando – in poco tempo dagli inizi del Duemila diventa termine internazionale. Pensate che a coniarlo è un giovane ambientalista e studente universitario competente, appassionato, coraggioso. Di più, visionario. «All’epoca si respirava un grande entusiasmo, una determinazione volitiva, il senso di una missione da compiere in nome dell’umanità. Ma non c’era di certo la convinzione che avremmo avuto, diciamo così, tanto successo». Sono le parole pronunciate pochi mesi fa da James Gifford, inventore dell’acronimo ESG. Ma facciamo un passo indietro, anzi più d’uno. Gifford è uno studente di economia all’Università di Sydney e un convinto ecologista quando, nel lontano 2003, legge che l’Onu sta creando nella sede di Ginevra l’Environment Programme Finance Initiative (UNEP FL), partnership globale tra le Nazioni Unite e istituzioni finanziarie volta a incoraggiare banche, assicurazioni e investitori a integrare considerazioni ambientali e sociali nelle loro attività finanziarie. Così senza esitazioni James decide di concentrare la sua ricerca di dottorato sulle questioni legate all’intersezione tra finanza e ambiente e chiese di poter svolgere uno stage proprio lì, alle Nazioni Unite. Lo stage non è retribuito, ma nel tempo – si sarebbe scoperto dopo – gli avrebbe cambiato la vita, e in fondo l’avrebbe cambiata a migliaia di altre persone nel mondo.
Ma procediamo con ordine. Una volta a Ginevra, James Gifford inizia a lavorare per Paul Clements-Hunt, loquace inglese assunto tre anni prima per gestire il nascente programma UNEP FL. All’epoca l’Onu stava cercando di comprendere la miriade di impatti ed effetti del cambiamento climatico: una delle sfide consisteva nel far digerire ai grandi gruppi finanziari gli investimenti etici che in quel momento venivano esclusi dai portafogli dei fondi. Per riuscirci James Gifford suggerisce di creare un quadro normativo, un insieme di principi fondamentali che col tempo sono diventati i PRI (Principles for Responsible Investment) con i quali gli investitori istituzionali avrebbero potuto realmente impegnarsi. Invece di stilare un elenco di aziende cattive da evitare, l’attenzione si sposta dall’etica personale alle questioni materiali. Quell’intuizione geniale si sarebbe rivelata vincente. Perché da quel momento in poi tutte le grandi aziende finanziarie avrebbe iniziato a investire sempre di più in titoli ESG – ricordiamo: Environmental, Social, Governance – strutturando di fatto quella che è sarebbe diventata negli anni la finanza sostenibile. Un modello che non guarda solo al profitto, ma all’impatto degli investimenti sulla società. Un modello contemporaneo, plurale, vincente.
Da quegli anni ai giorni nostri. La finanza sostenibile sta diventando sempre più importante nell’ecosistema finanziario globale riflettendo una trasformazione profonda nel comportamento dei consumatori e degli investitori: dal 2006, quando gli investimenti green sono diventati realtà, la quota di asset in fondi ETF ESG è aumentata in modo esponenziale passando dai 5 miliardi di dollari del 2006 ai 480 miliardi di dollari del 2023. Secondo il rapporto 2022 della Global Sustainable Investment Alliance nel mondo sono gestiti 30 trilioni di dollari attraverso strategie sostenibili. Anche perché conviene agire e in fretta. Altro che stare seduti ad aspettare che la crisi legata al climate change possa ulteriormente aggravarsi. La sfida contemporanea della finanza sostenibile spinge all’azione. In fondo è quello che racconta una campagna promossa dall’emittente danese TV2 che ha deciso di distribuire in giro nella città di Copenaghen panchine sopra le righe alte ben 85 centimetri. Non è un numero a caso perché fa riflettere sul futuro del nostro pianeta. Infatti il numero simboleggia l’aumento stimato proprio dall’Onu del livello del mare entro il 2100. Le temperature degli oceani vedranno un incremento senza precedenti, oltre alla perdita di ossigeno ed altre conseguenze che avranno ripercussioni anche sulla perdita di biodiversità. “Le inondazioni diventeranno parte della nostra vita quotidiana, a meno che non iniziamo a fare qualcosa per il nostro clima. Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul clima, si prevede che il livello del mare aumenterà fino a 1 metro prima del 2100 se il riscaldamento globale dovesse continuare”, si legge sulle targhe delle panchine dalle gambe lunghe.
Dalla campagna del nord-Europa a quanto si sta facendo sulla finanza sostenibile. Ma attenzione: ci sono differenze sostanziali e temi specifici che stanno emergendo a livello globale. Il rapporto segnalato qualche riga più sopra evidenzia una maturazione del settore: vengono adottate definizioni più rigorose quando un fondo si dichiara o può essere descritto come sostenibile. Questi nuovi standard imposti sono stati una risposta diretta alle crescenti preoccupazioni riguardo al greenwashing e hanno quindi avuto un impatto sul modo in cui vengono misurate le attività sostenibili nel periodo fino al 2022. Come risultato nel cambiamento della metodologia il rapporto rileva un calo da 17 trilioni di dollari di patrimonio gestito negli Stati Uniti nel 2020 a 8,4 trilioni di dollari nel 2022.
Allo stesso modo in Europa la tendenza a lungo termine suggerisce che la percentuale di asset definiti sostenibili sia in calo di circa il 5% all’anno. Inoltre a livello globale sta emergendo una tendenza più ampia che evidenzia la necessità di definizioni più chiare e di una comprensione più condivisa su ciò che rende sostenibile un asset. Il Global Sustainable Investment Alliance prevede ulteriori sviluppi negli anni a venire, poiché il regolamento dell’Unione Europea sull’informativa finanziaria sostenibile (SFDR) continua a evolversi, insieme ad altri approcci globali alla divulgazione e all’etichettatura e con l’aumento della disponibilità e della qualità dei dati.
Alleanze trasversali green
Per decenni il settore finanziario è stato il perno (spesso non dichiarato) dell’azione climatica. In un articolo uscito su Times all’inizio del 2024 si analizza l’impatto della finanza sui progetti sostenibili con una previsione dell’anno in corso: negli Stati Uniti, ad esempio, meccanismi fiscali innovativi hanno aiutato a sovvenzionare l’energia eolica e quella solare, trasformandole nelle potenze che sono oggi. Nei colloqui climatici globali la promessa di fondi per le economie emergenti ha contribuito ad avanzare le trattative climatiche nei momenti difficili. Il motivo principale per cui la finanza è così importante per la distribuzione di energia pulita è la centralità dei costi iniziali per le infrastrutture del settore. Questi costi di costruzione di solito devono essere finanziati. Ovviamente anche i progetti legati ai combustibili fossili hanno costi iniziali, ma tendono ad essere più bassi poiché il costo di produzione di energia dai combustibili fossili è principalmente legato all’acquisto di gas, petrolio o carbone quando serve, il che di solito non dipende dal finanziamento delle infrastrutture. Alcuni fattori stanno ora portando queste realtà a un punto critico. In primo luogo i tassi di interesse più alti hanno sconvolto i numeri per i progetti che anche solo un anno fa potevano essere messi a terra. In secondo luogo le economie emergenti – ossia quelle più bisognose di finanziamenti per le infrastrutture – sono state sottoposte a una pressione crescente per arrestare le emissioni, ma non possono effettivamente permettersi il costo del prestito che consentirebbe loro di farlo.
La situazione globale cercherà di trovare una quadra alla prossima COP, che si terrà a Baku, in Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre 2024. L’ultimo impegno finanziario, preso alla COP15 a Copenaghen nel 2009, ha chiesto ai paesi ricchi di inviare 100 miliardi di dollari all’anno in finanza climatica nelle economie emergenti dei Paesi del Sud del Mondo a partire dal 2020. Nessuno pensa, secondo il Times, che 100 miliardi di dollari saranno adeguati in futuro. Gran parte delle discussioni finanziarie della prossima conferenza sul clima probabilmente si concentreranno sui fondi dai governi dei Paesi ricchi come gli Stati Uniti e dalle istituzioni come la Banca Mondiale, ma l’obiettivo reale sarà mobilitare il capitale privato utilizzando una struttura di finanziamento mista e quindi combinando il capitale del settore privato con denaro dei governi o proveniente dalla filantropia. Le aziende che gestiscono correttamente queste strutture si posizioneranno come leader in un mercato destinato a crescere rapidamente. BlackRock, ad esempio, ha lanciato un fondo nel 2021 che ha messo insieme denaro provenienti da governi e da enti filantropici con il capitale degli investitori istituzionali. Obiettivo: dimostrare come un tale progetto possa essere strutturato con successo. Insomma, quella che sembra la via maestra è segnata dalle alleanze impensabili in passato tra enti pubblici e privati, unitamente agli organi finanziari.
Il rischio greenwashing
Nel mondo uno degli strumenti più utilizzati per gli investimenti green sono i Green Bond, un’obbligazione nata nel 2007 ed emessa per finanziare progetti di green economy. Secondo la Climate Bond Initiative (CBI) il mercato dei green bond ha registrato una crescita sostenuta. Nell’ultimo decennio l’emissione è aumentata in modo esponenziale: nel 2014 sono stati emessi green bond per un valore di 37 miliardi di dollari. Nel 2021 questa cifra ha raggiunto il picco di circa 582 miliardi di dollari USA, per diminuire leggermente nel 2022, quando i green bond emessi ammontavano a 487 miliardi di dollari USA.
Mentre i green bond restano il semplice strumento di debito delle banche per la finanza sostenibile, altri prodotti stanno ora prendendo piede. Secondo il Financial Times le obbligazioni legate alla sostenibilità (SLB) vincolano i pagamenti degli interessi sul debito di una società alle sue promesse sul clima, punendo con tassi di interesse più elevati se non raggiungono gli obiettivi ambientali. Alle aziende piacciono queste obbligazioni perché non impongono alcun obbligo all’azienda di raggiungere obiettivi come la riduzione delle emissioni o del consumo di acqua o la revisione delle catene di approvvigionamento. Tuttavia gli aumenti dei tassi incorporati nei termini delle obbligazioni sono stati troppo bassi per incoraggiare le aziende a rendere più green le loro azioni. Allo stesso modo alcuni fondi pensione e investitori ambientali hanno tranquillamente affermato di non credere che le obbligazioni legate alla sostenibilità, ovvero le SLB, paghino per rigorosi progetti sul cambiamento climatico. Tra strumenti finanziari, investimenti governativi e privati la finanza sostenibile sta percorrendo un sentiero incerto: alcuni analisti sono convinti che nel lungo periodo i problemi che sta affrontando l’economia in questo momento non inficeranno sull’incremento degli investimenti verdi. Altri invece ritengono che, se non regolati nel modo corretto gli strumenti finanziari che abbiamo citato, potrebbero diventare semplici passe-partout da parte delle aziende per accumulare fondi. Daniel Green, professore di finanza alla Harvard Business School, concorda sul fatto che la sfida più grande con i green bond è che «vengono utilizzati principalmente per finanziare investimenti che sarebbero stati effettuati ugualmente senza l’accesso ai green bond”. Il perno da cui potrebbe strutturarsi l’enorme impianto della green finance è come sempre la regolamentazione. James Gifford tramite il suo lavoro da stagista alle Nazioni Unite aveva capito che fissare dei paletti che orientino le aziende negli investimenti green era la strada vincente. Ora, dopo diciotto anni e quindi con la classica maggiore età e con gli eventi storici che hanno mutato il contesto geopolitico, la soluzione sembra la stessa. Insomma, la storia tende a ripetersi nei suoi errori, ma anche in quelle soluzioni che – con un mutato contesto – potrebbero fornire risposte alle tante domande.
April 30, 2024 at 04:30PM