Poliestere, perché il tessuto fa male all’ambiente anche se riciclato – Elle

Poliestere, perché il tessuto fa male all’ambiente anche se riciclato – Elle

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Per alcuni resta da evitare come il peggiore dei mali, per altri un’alternativa duratura ed economica a fibre più prestigiose: di qualsiasi schieramento si faccia parte, chiunque nel proprio armadio detiene sicuramente più poliestere di quanto sia perfino consapevole. La maggior parte dei vestiti oggi prodotti sono infatti realizzati in poliestere e non stiamo parlando soltanto di fast fashion: la fibra sintetica più diffusa al mondo è oggi ampiamente impiegata anche nel settore della moda lusso – chi è intenzionato a costruirsi un guardaroba sostenibile si sarà infatti certamente imbattuto nella dicitura "poliestere riciclato". Secondo il Textile Exchange Material Market Report 2023, nel 2022 la produzione globale di fibre ha raggiunto i 116 milioni di tonnellate – con 147 milioni previsti entro il 2030 – di cui il 54% rappresentato dal poliestere. Se guardiamo soltanto all’abbigliamento, insieme al nylon costituisce il 69% dei materiali usati nell’industria, una percentuale che potrebbe sfiorare il 75% nei prossimi cinque anni. Insomma, i nostri vestiti sono pieni di plastica ma i sintetici sono qui per restare. La domanda sorge quindi spontanea: c’è davvero speranza di assistere a un’evoluzione del poliestere in ottica sostenibile o resterà sempre e comunque una scelta dannosa.

I benefici del poliestere

Facciamo prima di tutto un passo indietro per capire come e perché il poliestere sia diventato così inevitabile e centrale nelle nostre vite. Prima degli Anni 40, l’80% delle fibre impiegate per l’abbigliamento erano naturali. Fu nel 1941 che i chimici britannici John Rex Whinfield e James Tennant Dickson scoprirono il polietilene tereftalato (PET), la forma più comune del poliestere e pietra miliare dell’industria tessile moderna. Subito brevettata, la fibra iniziò a guadagnare popolarità intorno agli Anni ’50, sotto la spinta dell’azienda chimica americana DuPont, per poi raggiungere il picco della fama nei Seventies, quando la moda iniziò a sperimentare con nuovi tessuti. Il successo, da allora, non ha fatto che aumentare: dagli Anni ’80 al 2014, riporta Fibershed, la produzione di poliestere sarebbe aumentata addirittura del 900%.

Dalla sua, l’infausto tessuto ha una serie di qualità difficili da trovare altrove: è resistente, duraturo, versatile e multiforme, facile da curare, molto economico. Inoltre, l’introduzione di tecnologie sempre nuove ha permesso nel corso dei decenni di superare anche i suoi più grandi difetti, come la scarsa traspirabilità o la sensazione poco piacevole che, ai suoi albori, lasciava sulla pelle. Il poliestere di oggi è trattato per sembrare seta, lana, cotone, acconciato per formare morbide pellicce fatte con materiali sintetici o trattato per sostituire la pelle naturale: può trasformarsi in moltissime cose e, se subisce particolari lavorazioni che lo arricchiscono di attributi legati alla performance o alla sostenibilità, è perfino glorificato come un materiale innovativo. Minima spesa, massima resa. Fino a qui, sembrerebbe tutto perfetto se non fosse che il poliestere è estremamente dannoso per l’ambiente.

L’altro lato della medaglia

Con il termine poliestere si descrive infatti una categoria di polimeri prodotti dalla miscela di acido tereftalico e glicolide etilenico derivato dal petrolio: in parole povere, il poliestere non è altro che plastica, la terza più impiegata al mondo e la cui applicazione si estende ben oltre il settore della moda. Oltre alla pericolosa quantità di emissioni rilasciate (l’industria del petrolio è la più inquinante al mondo), la sua produzione avviene attraverso un processo di riscaldamento ad alta intensità che richiede anche ingenti quantità di acqua per il raffreddamento. Anche i suoi benefici si pagano poi a caro prezzo: per la sua struttura molecolare complessa, infatti, il poliestere è così resistente che non è biodegradabile. Nonostante tutti i passi avanti, resta un materiale ad alto impatto ambientale e si stima che un capo di questo tessuto si decomponga in un arco temporale molto vasto che va dai venti ai duecento anni. La situazione non fa che peggiorare se consideriamo poi l’uso dei coloranti derivati dal poliestere, che depositano i loro residui nelle acque reflue delle fabbriche tessili generando, in fase di smaltimento, gravi danni che si ripercuotono non solo su flora e fauna ma anche sull’uomo provocando, per esempio, malattie polmonari (soprattutto, ma non solo, ai lavoratori). Infine, un grande problema legato al poliestere, e alle fibre sintetiche in generale, è quello relativo delle miriadi di micro-plastiche disperse in fase di lavaggio, che vanno a inquinare le acque per finire ingerite da pesci e plancton, finché le tossine si insinuano in quel che mangiamo.

E il poliestere riciclato?

Purtroppo quello delle micro-plastiche è un problema difficile da evitare perfino per i tessuti naturali a causa dell’alto tasso di additivi chimici con cui vengono spesso trattati. Va da sé che neanche il poliestere riciclato può dirsi innocuo. Negli ultimi anni c’è stato un grande interesse a sperimentare con fibre PET rigenerate, solitamente ottenute dal riciclo bottiglie in plastica, ma secondo il Guardian non si presterebbero davvero a essere riciclate ancora e ancora come spesso viene sponsorizzato dalle aziende e spesso, specie nel caso del fast fashion, i capi finali sono un risultato di poliestere vergine e riciclato che non fa che "favorire la dipendenza dai combustibili fossili" per prodotti che, in ultima analisi, finiranno sempre e comunque in discarica. D’altronde, riporta sempre il Textile Exchange Material Market Report 2023, la quota di tessili riciclati nel mercato globale delle fibre sarebbe in calo.

Vanni Bassetti//Getty Images

Qual è la soluzione?

Innanzitutto, non tutto il poliestere riciclato è dello stesso tipo: quello ottenuto attraverso il riciclaggio chimico che scompone la fibra in monomeri, effettivamente "rigenerandola" e riportandola al suo stato originario. Si tratta comunque di un processo ancora non così diffuso, un terreno che al momento resta appannaggio delle grandi case di moda che prendono seriamente la questione ambientale. Quando parliamo del più classico PET si chiamano in causa soprattutto i brand di fast fashion che spesso sfruttano questa dicitura per migliorare la propria reputazione, restando ferme nel loro intento principale di tenere bassi i costi di produzione.

Quello che possiamo fare su più larga scala, dunque, è studiare l’approccio dei singoli brand e soprattutto prestare attenzione alla composizione dei tessuti per scegliere alternative veramente sostenibili: innanzitutto i materiali organici e dunque biodegradabili come cotone, seta, lana, lino, canapa, ma anche la viscosa (ottenuta chimicamente ma partendo dalla cellulosa naturale) e il TENCEL (che deriva dall’eucalipto e richiede poca acqua in fase di produzione). Altrimenti, per andare sul sicuro, vale sempre il consiglio di acquistare vintage che, tra l’altro, sta vedendo un momento di grande successo.

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