Gli abiti sostenibili vestiranno il mondo? – Mywhere.it
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L’abbigliamento ecologico di fattura artigianale non può sostituire di colpo su scala globale quello industriale. Lo sappiamo tutti. Tuttavia, da una decina di anni a questa parte hanno cominciano a prendere consistenza modi di produrre, distribuire e creare linee di prodotti green che rappresentano una valida alternativa all’abbigliamento tradizionale.
La mobilitazione delle grandi marche e di testimonials prestigiosi nel nome della “sostenibilità” è fondamentale per immaginare un cambiamento di vasta portata dei modi del consumo tra la gente.
Uno sguardo al passato
Fino alla prima decade del terzo millennio, uno dei limiti dell’abbigliamento eco-friendly era rappresentato dall’estrema essenzialità del suo design e dalle caratteristiche naif dei materiali usati. In altre parole, per molti anni gli abiti che oggi ci piace definire “sostenibili” erano bruttini, fatti con stoffe naturali ma anche involute e per giunta più costosi di prodotti aventi la stessa funzione.
Se non eri un fanatico dell’ideologia eco, potevi certo indignarti per lo sfruttamento indiscriminato del pianeta, partecipare a qualche camminata, essere d’accordo per la raccolta differenziata dei rifiuti, auspicare l’intervento dello Stato per sostenere il mercato dei pannelli solari o delle auto elettriche, ma non avresti mai comperato per il tuo guardaroba serio l’abbigliamento green.
La trasformazione dell’ideologia eco in un sistema di valori work in progress basati su pochi assiomi condivisi dalla maggioranza della gente ha cambiato le carte in tavola.
L’idea assolutamente generale che da un po’ circola anche tra la gente ordinaria ovvero che possiamo produrre meglio, risparmiando energia e riducendo l’inquinamento, è divenuta per molti una sorta di principio valido a priori, sul quale scommettere per esssere il linea con uno stile di vita che bilanci l’ascolto di desideri con il rispetto per l’ambiente. Inutile aggiungere che il più delle volte non abbiamo affatto le idee chiare su cosa possa significare realmente produrre meglio e come essere più responsabili o etici. Comunque, malgrado quest’ordine di dubbi, l’idea generale che ho esposto ha cominciato a funzionare come il nuovo orizzonte all’interno del quale, sostengono gli esperti, prenderanno forma le preferenze delle persone riguardo i consumi. Il concetto che oggi sembra esprimere meglio questa nuova frontiera dello stile di vita è evocato dalla parola sostenibilità.
Francesco Storace, sociologo e futurologo tra i più accreditati nel nostro Paese, una decina di anni or sono sostenne che entro 5/10 anni la sostenibilità sarebbe divenuta un parametro di qualità della vita irrinunciabile per la maggioranza degli individui.
Le previsioni di Storace discendevano dai report di numerose società specializzate in indagini di mercato, secondo le quali la vendita di prodotti eco-compatibili ogni anno avrebbero dovuto crescere in doppia cifra. Ebbene, diciamo subito che le previsioni non sono state rispettate. Intendiamoci: proclami sulla sostenibilità si sono diffusi ovunque, è aumentata la consapevolezza della gente ma da ciò non sono discesi quei comportamenti che lasciano pensare ad una efficace svolta.
Tuttavia non deve sorprendere se di fronte ad un mutamento del gusto che si annunciava epocale, i protagonisti della moda si sono prontamente attivati per sintonizzarsi con i tratti dominanti del cambiamento. Evidentemente perché anche gli stilisti e i grandi manager della moda sono come noi abitatori di questo pianeta e quindi è giusto che si preoccupino e lo difendano; ma soprattutto perché è il loro mestiere andare un po’ prima di altri là dove arriveranno i desideri della massa dei consumatori.
Nascita di una parola-narrazione
La parola “sostenibilità” deriva dal latino sustinere che significava sostenere, difendere, favorire, prendersi cura di qualcuno o di qualcosa.
Diviene un concetto di tendenza verso la metà degli anno ’80 del novecento, quando fu ufficialmente adottato dalla Commissione Mondiale del’ONU per l’ambiente e lo sviluppo, durante un convegno a Stoccolma nel 1987. Il Report che diffuse gli esiti di quei lavori ebbe una vasta eco e contribuì a diffondere la parola in tutti gli ambienti, da quelli della ricerca scientifica ai luoghi nei quali si progettavano politiche di intervento, dagli intellettuali, giornalisti e opinion leader ai pubblici più sensibili ai problemi ecologici.
Nel 1992 alla conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, furono i Capi di Stato mondiali, per la prima volta uniti per affrontare a livello globale gli emergenti problemi ambientali, a rafforzare la diffusione del concetto di “sviluppo sostenibile” in tutti gli strati sociali, trasformandolo in una sintetica categoria verbale che alludeva ad una nuova visione strategica e al tempo stesso in una polarizzante parola-narrazione. Tuttavia il riposizionamento semantico che diedero al concetto per accontentare tutti i protagonisti del convegno, risultava anche fatalmente ambiguo: Lo sviluppo sostenibile – si leggeva nei report- è uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni successive di realizzare i propri”.
Da quei giorni abbiamo assistito ad una straordinaria diffusione della parola, seguita come un’ombra da uno sconcertante aumento di tensioni, di polemiche, di critiche.
Mentre si diffondevano a cascata rapporti scientifici, analisi, divulgazioni giornalistiche, proclami di valenza globale, nascevano da ogni parte ondate di critiche più o meno sensate e cresceva una piccola moltitudine di negazionisti. Vale la pena di aggiungere che gli intermediari culturali allineati ai fondamenti etici dello sviluppo sostenibile, osservando il problema da punto di vista pragmatico non potevano che registrare il fallimento di tutti gli obiettivi dei primi piani operativi globali.
Diciamo che soprattutto all’inizio dei tentativi di tradurre i principi della sostenibilità in protocolli di azione, sin dalle prime fasi degli interventi operativi, in sede di rendicontazione emergeva una preoccupante distanza tra riscontri e le aspettative.
Probabilmente era il prezzo da pagare per aver impostato le narrazioni soprattutto a livello di analisi globali diffondendo interventi difficili da ochestrare, vuoi perchè troppo ambiziosi, vuoi perchè si basavano su sincronie improbabili tra Paesi e forme di governo troppo eterogenei. Ovvero di aver trascurato la realtà delle persone, dei territori, degli ambienti e delle culture nei quali agiscono e vivono.
Occorrevano oltre alle necessarie focalizzazioni su dati scientifici e a nuove regolazioni, strategie glocal che documentassero l’effettiva consistenza del concetto di sostenibilità sulla specificità di territori e individui non riducibili a medie statistiche o a scontate generalizzazioni. Occorreva la collaborazione con il potenziale narrativo dei dispositivi della moda, i più efficienti per orchestrare desideri e non solo bisogni, orientandoli verso nuovi scenari; dispositivi notoriamente molto efficaci per deviare , grazie a salti percettivi, la traiettoria dei comportamenti; i dispositivi tra i più creativi a nostra disposizione per domare la folle passione di novità che aveva caratterizzato la post-modernità (e accelerato la crisi del Pianeta).
Protagonisti della moda sostenibile
L’entrata in scena convinta dei grandi nomi della moda ha cambiato radicalmente il significato operativo dell’abbigliamento sostenibile dando ad esso quell’allure che, nel tempo delle origini evocato all’inizio, la moda green non aveva.
Uno degli esempi più eclatanti che ricordo è l’abito che Giorgio Armani disegnò per Livia Giuggioli, moglie del celebre attore Colin Firth, divenuta nota al grande pubblico per aver creato il Green Carpet Challenger. La foto della celebre coppia sul red carpet dei Golden Globes 2012 con la bellissima Livia resa ancora più glamourosa dallo splendido abito di Giorgio Armani fece il giro del mondo. E con essa si diffuse il messaggio etico metacomunicato dall’immagine: la moda sostenibile è bella dal momento che il tessuto dell’abito, chiamato Newlife di Filature Miroglio è ottenuto dal riciclo di bottiglie di plastica. Inoltre l’intera filiera produttiva, dalla materia alla produzione è certificata.
Quindi grazie all’alleanza tra un grande interprete della moda come G.Armani e due star si platonizzava l’ideologema della sostenibilità, attraverso una invisibile struttura di senso che metteva in connessione il bello con il buono e il giusto.
E’ chiaro che in questa forma, sostengono molti autorevoli analisti, per come siamo fatti, il messaggio può influenzare in modo profondo i comportamenti e i valori della pubblica opinione proiettando l’abbigliamento sostenibile su scenari profondamente diversi rispetto al tempo in cui moda ecologica significava poco più del riciclaggio di abiti usati e ruvida creatività.
In questa fase di accensione dei motori della moda etica, credo sia stata fondamentale la citata Livia Giuggioli-Firth. Fin dal 2007, profondamente ed emotivamente coinvolta dalle ripercussioni sociali del mutamento climatico in parte causate dai modi di produzione e di consumo dei prodotti moda, cominciò a riflettere sul cosa fare per tradurre in azione e dare concretezza ai tanti proclami pronunciati nel nome della sostenibilità. Probabilmente nelle fasi iniziali del suo coinvolgimento emotivo, l’elemento compassinevole verso chi sopportava i costi esistenziali delle conseguenze della globalizzazione e del cambiamento climatico, era dominante. Ma il suo attivismo si rivelò gravido di intelligenza. Sono convinto che Livia conoscesse benissimo ciò che gli scienziati da decenni divulgavano e che condividesse l’importante impegno di divulgare dati, informazioni relative alle criticità del Pianeta. Ma aveva maturato l’idea che senza il coinvolgimento diretto dello Star system e dei creatori di bellezza e moda, difficilmente la sostenibilità avrebbe intaccato in profondità lo stile di vita delle persone. Nel 2009 fondò dunque Eco-Age, una azienda di consulenza nata per dare un supporto di conoscenze alle aziende che timidamente si accostavano ad un problema complesso. Poi ideò il Green Carpet Challenge come modalità di ingaggio con i personaggi dello Star System capaci di far emergere potenti narrazioni emozionali al servizio della sostenibilità: attori e attrici famosi vestiti rigorosamente green da grandi creativi nei momenti più mediatici di eventi, festival di levatura mondiale. Il primo intervento operativo fu un Gala del Golden Globe (è uno dei massimi riconoscimenti nel settore cinematografico e televisivo, secondo solo al premio Oscar) del 2009, nel quale Livia grazie alla collaborazione con Tom Ford, in quell’occasione premiato per la sua regia del film “A Single Man”, presentò il Green Carpet Challenge suscitando l’attenzione dei media. L’idea di fondo, come tutte le buone idee in realtà era semplice da comprendere quanto efficace negli effetti: utilizzare il “linguaggio emozionale” della moda evento per coinvolgere attivamente grandi attori e famosi stilisti ad impegnarsi concretamente per trasformare gli stili di vita delle persone sensibili al fascino dello Star System.
Gli esempi di Tom Ford/Giogio Armani/ Livia Giuggioli-Firth sono solo uno dei tanti avvenimenti e progetti grazie ai quali la sostenibilità nella moda raggiunse effetti da prima pagina.
Da quei giorni i protagonisti del comparto del lusso che con collezioni capsule di abiti o accessori strizzano l’occhio alla moda green non si contano.
Quasi tutti i brand di settore, in un modo o nell’altro, si sono misurati con la sfida della sostenibilità. Anche se è vero che in alcuni casi era evidente l’intenzione di sfruttarne l’interesse crescente da parte del pubblico per fornirsi un’aura etica sostanzialmente fasulla dal punto di vista pratico, credo si possa sostenere che i casi di greenwashing, perpetrati in modo cinico, nel settore moda siano stati sostanzialmente irrilevanti rispetto le adesioni a programmi e/o progetti ecologici. Da citare assolutamente, perché animati da un alone di romantica autenticità al sopra di ogni sospetto, sono gli innumerevoli interventi creativi in versione eco di Vivienne Westwood, il cui impegno etico comincia negli anni novanta del novecento. L’ultimo suo progetto che ricordo in ordine di tempo era rappresentato da una piccola collezione di borse e accessori battezzata “Ethical Fashion Africa”, realizzata da centinaia di artigiane keniote usando come materiali cavi elettrici, alluminio di scarto, vecchi cartelloni pubblicitari, logore tende da safari. Un’altra stilista british da anni impegnatissima su questo fronte è Stella McCartney. Vegetariana da sempre, nelle sue collezioni dominano borse e calzature realizzate in pelle ecologica e nel business, racconta il suo ufficio stampa, preferisce interagire con soggetti economici che investono parte dei propri ricavi in fonti energetiche pulite. Anni fa, incuriosito dal green design di Stella McCartney acquistai i suoi occhiali da sole eco sostenibili (costavano quasi il doppio di un buon occhiale di marca). In che senso li si poteva dichiarare tali? La responsabile del punto vendita alla quale posi la domanda quasi si vergognava delle anoressiche e sgangherate frasi che poteva offrirmi. Allora cercai informazioni nel web e scoprii che il materiale più usato per realizzarli era la bio plastica iniettata che contiene il 54% di olio di semi di ricino. Dal quel che mi è dato capire quegli occhiali si dichiaravano sostenibili poiché le piante di ricino utilizzate per produrli erano OGM free. Inoltre, prevedendo la scontata obiezione del ropicoglioni negazionista di turno, basata sul fatto che di solito le varietà naturali hanno meno resa rispetto le OMG e quindi necessitano di più terreno finendo con consumare più acqua e più energia, l’efficiente ufficio stampa della stilista dicevo, a suo tempo aveva diffuso la notizia che le piante di ricino crescono su suoli poveri in aree semiaride e che quindi necessitano di pochissima acqua e nessun pesticida. Insomma con Stella McCartney non si scherza. La sua adesione alla causa green è da sempre seria, duratura e coerente.
Ma anche creativi e marche lontane dal romanticismo ecologico delle due stiliste britanniche, oltre alle adesioni etiche sulla trasparenza e correttezza morale dei rapporti di produzione, sperimentavano la sostenibilità anche a livello di prodotto moda. Frida Giannini quando era l’art director di Gucci presentava regolarmente prodotti sostenibili come le scarpe eco-friendly (ballerine in plastica biodegradabile). Quando la coppia Bizzarri/ Alessandro Michele fu chiamata al comando strategico della marca, rafforzarono l’impronta green dell’immaginario Gucci e diedero il via a numerose iniziative per la sostenibilitù. In un modo o nell’altro tutti i grandi brand programmarono una svolta nell’identà di marca orientata a valorizzare l’etica eco. Uno dei primi interventi creativi in chiave sostenibile di Ferragamo aveva come oggetto borse ecologiche. Alberta Ferretti insieme all’attrice Emma Watson, al tempo in cui forse era più famosa tra il pubblico giovanile con l’orrendo nome di Hermione, la protagonista della saga di Harry Potter, creò un piccola collezione di abiti eco andata subito esaurita.
Oltre alle iniziative delle grandi marche della moda anche molte famose singolarità dello Star system del cinema e della musica sono entrate dalla porta principale creata da Livia Giuggioli-Firth metacomunicando significazioni certamente non banali su come praticare la sostenibilità. Per farmi intendere citerò solo qualche recente esempio: al Festival del Cinema di Venezia del 2023, Amal Clooney si fece vedere e fotografare insieme al marito George, indossando un abito Dior di John Galliano della collezione che lo stilista presentò nel 2000; l’attrice Sidney Sweeney nel party organizzato da Vanity Fair nel corso della cerimonia degli Oscar 2024 indossò un abito da sera dello stilista Marc Bower che era già stato indossato da Angelina Jolie agli Academy Awards di vent’anni prima; nel corso della stessa manifestazione anche Margot Robbie, si presentò con un corpetto e gonna che Terry Mugler aveva creato nel 1996; l’attrice Zendaya alla serata Naacp del 2023 fu una delle star più ammirate e di certo non passò inosservato il completo bianco della collezione Prada del 1993; Miley Cyrus al Grammy 2024 si esibì indossando un abito a frange metallizzate che era stato creato negli anni settanta del novecento dal costumista Bob Mackle forse ispirato dal grande Paco Rabanne; Claudia Shiffer alla settimana della moda di Milano esibì una minigonna dorata creata da Versace nel 1994; Nicole Kidman affascinò tutti i partecipanti al Met Gala 2023 con uno stupendo Dior del 2004…A questo punto ritengo inutile aggiungere altri esempi. Il lettore curioso o interessato può rivolgersi al podcast “Pre-Loved” di Emily Stochl, divenuta una vera e propria esperta di moda second hand. Nel suo profilo social, l’attivista eco, educatrice e scrittrice, documenta da anni con insolita precisione ogni apparizione pubblica dei personaggi famosi che indossano abiti di seconda mano. In questa sede io sono interessato a ragionare sulle conseguenze o probabili effetti di queste scelte. E’ chiaro che non possiamo riportare tutto al Vintage di valenza storica, operativo da almeno mezzo secolo (negli anni sessanta creativi come Ossie Clarck, Walter Albini, Biba, solo per fare qualche nome, citavano in continuazione gli anni venti/trenta e oltre ad ispirarsi ai look di quel periodo per le loro creazioni, stimolarono tanti consumatori ad esplorare con più attenzione i mercatini dell’usato). Il concetto di seconda mano focalizza la questione del riciclo degli abiti, suggerendo pratiche anti-spreco. Intendiamoci, nulla di realmente nuovo. Ricordo che da adolescente il primo capo di abbigliamento che mi fece percepire intorno a me attenzioni alle quali non ero abituato, fu un vecchio cappotto inglese in solido tweed di mio zio che mia madre abile sarta con un piccolo intervento riadattò. Nessuno dei miei amici aveva un capo simile e posso aggiungere che probabilmente mi invidiavano. Ma purtroppo non avevo l’appeal di un divo del cinema e quindi non cambiai affatto il loro comportamento. Questo apologo autobiografico mi permette di arrivare al punto. La star che sceglie di indossare l’abito di seconda mano in eventi pubblici e di grande risonanza mediatica evidentemente non può evitare di rivolgersi a capi prestigiosi, di lusso. Appartiene alla logica della situazione che difenda la propria unicità o distinzione. La massa dei consumatori di certo non può concretamente imitare le scelte green di una star. Ma tuttavia è molto più importante dell’oggetto moda, il messaggio etico trasmesso a tutti i pubblici che intercettano nei Web, in TV, sui magazine, queste messe in scena di una identità responsabile. Possiamo considerala solo come una tendenza dello star system, ammantata di furbizia per abbindolare un pubblico divenuto sensibile per la causa ambientale? I sospetti sono legittimi, ma è innegabile che senza l’intervento di personaggi famosi difficilmente il paradigma della sostenibilità avrebbe raggiunto il vasto pubblico così velocemente.
Come ho già ricordato molti brand della moda sono scesi in campo per dare sostanza agli appelli per la sostenibilità. Ancora una volta riesce difficile enumerare tutte le iniziative che a cascata sono state riversate sul largo pubblico per la verità sinora poco propenso ad aderire fattualmente in massa a consumi più responsabili. Comunque holding come OTB di Renzo Rosso senza troppo clamore in pochi anni hanno ridotto del 20% le emissioni prodotte dalla loro attività, aumentando la quota di approvvigionamento di materiali a basso impatto e utilizzando fonti energetiche rinnovabili (che costano il 12% in più delle tradizionali). Secondo Renzo Rosso la sua holding dovrebbe raggiungere a zero emissioni intorno al 2050. Un efficace bilancio di sostenibilità implica investimenti di milioni di euro ogni anno. Non si rischia così di favorire chi cinicamente continua nella ricerca del massimo profitto? Il leader di OTP, come sempre coerente con la sua massima Be Stupid, suggerisce una soluzione molto semplice da comprendere: tassiamo di più i brand che inquinano, non hanno un bilancio di sostenibilità o che non lo rispettano.
Per quanto riguarda la fascia di pubblico che matura i propri comportamenti soprattutto interagendo nel web, mi piace ricordare che un segnale significativo del progressivo aumento di una clientela eco-responsabile discese dalla scelta di Yoox.com, il sito web dell’e-commerce modaiolo con clienti in tutto il mondo, di creare una versione eco-frendly chiamata Yooxygen.com, con in vendita prodotti e collezioni di stilisti attenti all’ambiente. Il protagonista di questa svolta nella rete che tentava di fondere l’etica della sostenibilità con l’interazione commericiale degli internauti sensibili alla moda fu Federico Marchetti, uno dei più brillanti ed efficaci imprenditori della sua generazione, la cui adesione alla causa ambientale si rivelò coerente e duratura. Quando decise di uscire da Net-à-porter (che nel frattempo aveva assorbito Yoox nominando Marchetti A.D.) entrò da protagonista nella Task Force creata da Re Carlo III per battersi in difesa del paradigma della sostenibilità nella moda che, ricordiamolo, è uno dei comparti industriali più inquinanti del pianeta. Penso che le sue idee sul come rendere sinergico il rapporto tra innovazione e ambiente gli abbiano assicurato una posizione di rilievo presso la Commissione Europea e Re Carlo III d’Inghilterra, soprattutto nella configurazione del “passaporto digitale” ovvero un certificato virtuale che notifica ogni passaggio che porta un prodotto dalla produzione all’uso. A più riprese Marchetti ha sostenuto che questa sia la vera svolta per dare concretezza ad ogni discorso sulla sostenibilità. Quali sono gli effetti e o le conseguenze pratiche del passaporto digitale? Se nell’etichetta del prodotto posso leggere la storia dell’oggetto, dalle condizioni sociali di produzione alla sostanza materiale utilizzata, allora ogni alibi per le anime belle viene a cadere e al suo posto può collocarsi la consapevolezza dell’impatto che la mia scelta idividuale produce. Voglio aggiungere che con la storia dell’oggetto al posto dei contenuti di una etichetta ordinaria, la merce, un abito se volete, non è solo tracciabile o politicamente corretto, ma si introduce per la porta stretta che lo porta a contatto con la condizione umana. Da un certo punto in poi le merci hanno cominciato a parlarci e a farci sognare ovvero desiderare. Con il “passaporto” i loro discorsi quasi sempre menzogneri e le immagini che le trasformano in sogni vengono bilanciati con verità fattuali che attivano l’attività cosciente dei limiti che i nostri desideri devono darsi per far sì che la propensione alla bellezza e al piacere abbia note etiche. Oltre alla storia di un abito il passaporto digitale di Federico Marchetti incorpora un tipo logico di istruzioni per l’uso innovative e in questa fase fondamentali. Mi riferisco al come riciclare gli abiti che compriamo. E’ un problema serio, difficile da affrontare. Riciclare significa aumentare la longevità di un capo d’abbigliamento. Abiti che vivono di più nei guardoroba di milioni di consumatori sono una risposta concreta ai problemi che pone la sostenibilità. Ora, tutte le ricerche effettuate nel nome della sostenibilità documentano la prevalenza dell’interesse dei giovani su altre cluster di consumatori. Millennials e Generazione Z amano il digitale, mettono in gioco la loro sensibilità nel web, maturano le loro propensioni nei social. Ecco perchè personaggi come Marchetti hanno giocato un ruolo decisivo per focalizzare la sostenibilità nell’ambito delle scelte operative del marketing di tantissime aziende.
Allora, la moda sta facendo la sua bio rivoluzione?
Sembrerebbe di sì ma dobbiamo fare delle distinzioni. Secondo una ricerca condotta qualche anno or sono dall’Università Internazionale di Monaco (IUM) e organizzata da Marie-Cecilie Cervellon, Sandrine Ricord e Melena Hjerth, intitolata “Green in Fashion”, esisterebbe una profonda differenza tra il contesto anglosassone e il resto dell’Europa. Grazie ad un questionario centrato sulle motivazioni d’acquisto, le ricercatrici hanno in qualche modo misurato l’interesse dei consumatori per l’eco-moda, stabilendo che il pubblico anglo-americano in media è maggiormente predisposto alla sostenibilità rispetto al consumatore del vecchio continente. Perché? Direi che la risposta la possiamo abdurre dal differente impatto che hanno sul pubblico adesioni fortemente motivate e coerenti come quelle che ho descritto caratterizzare Vivienne Westwood e Stella McCartney, rispetto agli appelli ecologici estemporanei delle grandi marche del lusso francesi e italiane.
Certamente è importante che PPR (la seconda holding del lusso al mondo) abbia diffuso fin dal 2011 l’informazione che da quel momento al 2016 la produzione dei prodotti delle proprie griffe ridurranno l’impatto sull’ambiente del 25%. Così come non è certo banale che Gucci abbia dichiarato fin dal 2010 l’uso di imballaggi 100% riciclabili. Comunque sia, se prendiamo in considerazione gli investimenti finanziari, la dimensione bio per le grandi marche francesi ed italiane rappresenta ancora una piccola parte del proprio eterogeneo approccio marketing al mercato globale.
I produttori e designer americani e inglesi sembrano più determinati e convinti. Soprattutto tra i pubblici anglofoni funziona meglio la strategia basata sullo star system: coinvolgendo i grandi divi di Hollywood si influenza molto di più il consumatore rispetto a tanti proclami etici subito sommersi dal pirotecnico e spettacolare doping comunicazionale del fashion system.
Tuttavia della ricerca citata, malgrado risalga a una decina di anni or sono, mi ha incuriosito un dato per me significativo: gran parte degli intervistati sembra che non avesse chiaro il concetto di green fashion.
La correlazione di questo apparente paradosso con il successo della logica d’ingaggio dello star system citata sopra mi pare chiara: se uso l’immagine del divo per indurre un consumo etico, non desta alcuna sorpresa il fatto che poi il consumatore narcotizzi l’interesse per le informazioni di base che caratterizzano il prodotto acquistato. Il sogno del green sopravanza la percezione della sua reale consistenza. E’ chiaro che, come ho suggerito sopra, tra sogno e realtà possono imbricarsi tutte le astuzie che potete immaginare, che di verde non hanno proprio nulla. E infatti molti scettici nei confronti della svolta etica della moda, hanno evocato il già citato greenwashing ovvero hanno accusato i brand della moda di fare solo marketing e campagne pubblicitarie, programmando iniziative e messaggi sostanzialmente vuoti. Di conseguenza le narrazioni green si diffondono, diventano persino dominante, ma non intaccano più di tanto lo stile di vita.
Quindi in sintesi, si può sostenere che la moda farà la propria rivoluzione green quando non solo utilizzerà in modo dominante e ripetuto tutto il suo potenziale di comunicazione compreso l’uso dei grandi dello star system, per diffondere, per gradi se volete, la sensibilità al lato green della vita; ma anche quando riuscirà a far diventare di tendenza la piena consapevolezza della posta in gioco, ovvero il cambiamento dello stile di vita. Non ho niente contro espressioni divertenti e leggere come eco-friendly, green fashion etc., di innegabile appeal discorsivo ma con insufficienti riscontri pratici sullo stato dei consumi. A tal riguardo mi piace ricordarvi che un cambiamento a livello di disposizioni individuali significa deviare gli assunti del senso comune a livello percettivo e che le nostre percezioni non coincidono con il nome che diamo alle esperienze o ai fatti che ci coinvolgono.
Dunque piena consapevolezza significa certo un incremento di conoscenza, un approccio critico sulle nostre scelte, un impegno pratico; ma significa anche un affinamento delle percezioni che orientano le nostre vite, comprese le speranze e le idee sul futuro. E, oggi, la prima critica andrebbe rivolta ai troppo scontati vangeli green, troppo propensi a sopravalutare il potere delle parole. La seconda, al tipico modo del settore moda di delegare ad una vertigine di immagini il proprio contributo alla causa ecologica. I neuroscienziati ci dicono che la nostra mente funziona per immagini o per parole. Ma ci ricordano anche che con entrambe spesso ci sbagliamo. Non si tratta dunque di negarne l’incidenza ma di riportarle puntualmente a fatti, a problemi condivisi, a progetti misurabili, controllabili anche dalla gente, per permetterci di valutare la loro congruenza, consistenza e verità, affinché risultino convincenti aldilà della loro immagine oppure, se troppi fragili o addirittura ingannevoli, in qualche modo sanzionabili.
Riuscirà dunque la moda green a sopravvivere alla domanda imbarazzante: possiamo vestire il mondo (9 miliardi di persone) con l’attuale modo di concepire il biologico e la natura? Non conviene porre la sostenibilità in una relazione di confronto critico e non di conflitto con il modo industriale di organizzare i nostri guardaroba? Come coinvolgere altri attori della filiera moda come le decine di migliaia di punti vendita indipendenti, impossibilitati ad agire come le grandi marche, ma anche a contatto diretto con un considerevole numero di clienti? E soprattutto: come riuscieremo a trasformare in profondità la percezione della gente dal momento che il solo effetto immagine ha mostrato i suoi limiti?
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L’amore per la scrittura probabilmente lo devo a mia madre, eroica sartina di provincia. Non avendo superato l’orrore per forbici e aghi, mi sono ritrovato a lavorare il fantasma delle origini con parole e grammatica. Ho avuto maestri eccezionali dei quali, me ne rendo conto, sono stato un pessimo allievo. Ma non ho mai perso la voglia di mettermi in gioco.
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May 20, 2024 at 09:56AM