Fast fashion, le alternative sostenibili alla moda usa e getta – TeleAmbiente TV

Fast fashion, le alternative sostenibili alla moda usa e getta – TeleAmbiente TV

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Come riconoscere i brand di fast fashion e le alternative sostenibili.

Cosa è la fast fashion?

La fast fashion è un modello di business nato negli anni ’80 che letteralmente significa “moda veloce“. Le aziende hanno iniziato a produrre un numero sempre maggiore di collezioni con l’obiettivo di realizzare prodotti di tendenza e di renderli disponibili al consumatore nel minor tempo possibile e minimizzando i costi.

Il basso costo del prodotto spinge il consumatore ad acquisiti sempre più frequenti, senza pensare a ciò di cui ha realmente bisogno. Si innesca così un circolo vizioso, alimentato soprattutto dallo shopping online e dalla possibilità di resi, attività da fare con un semplice click.

Ci si è resi conto della pericolosità di questo modello di business e di chi paga realmente il basso prezzo della fast fashion subito dopo la tragedia di Rana Plaza, a Dacca, Bangladesh, con  il crollo di una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali. Nel crollo dell’edificio morirono 1.129 persone e ne rimasero ferite più di 2.500.

Un giorno prima erano apparse crepe strutturali nell’edificio, perciò le banche e i negozi dei piani inferiori chiusero immediatamente, mentre ai piani alti la produzione continuò perché gli operai, privi di un sindacato e col rischio di perdere un mese di salario, furono costretti a presentarsi al lavoro.
Alle nove meno un quarto del mattino il palazzo crollò.

Gli operai e le operaie che persero la vita lavoravano per il sistema globale della fast fashion. Il basso costo di un capo di abbigliamento nasconde sempre un alto costo sociale e ambientale che deriva da scelte poco sostenibili, come quella di appaltare la manodopera solo ad aziende in Paesi in via di sviluppo dove non vengono riconosciuti i diritti minimi dei lavoratori né esistono norme che disciplinino la tutela dell’ambiente da parte delle industrie.

L’impatto ambientale della fast fashion

L’industria della moda è considerata tra le più impattanti al mondo. Gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Questo significa che i prodotti tessili consumati nell’UE hanno generato emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate (dati Agenzia europea dell’ambiente).

Fonte Agenzia europea dell’ambiente

I brand low cost producono annualmente milioni di tonnellate di rifiuti tessili sintetici, difficili da smaltire anche a causa delle sostanze chimiche nocive presenti al loro interno.

Secondo alcune stime per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo.

Inoltre, lavare prodotti sintetici ha portato a un accumulo pari a mezzo milione di tonnellate di microplastiche sul fondo degli oceani ogni anno.

I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%).

Il deserto di Atacama, in Cile, attualmente è ricoperto da almeno 39mila tonnellate di vestiti. Da diversi anni, infatti, il paese sudamericano è diventato il polo internazionale dove confluiscono l’abbigliamento invenduto, gli scarti di produzione e i vestiti di seconda mano prodotti in Cina e Bangladesh.

 

Gli abiti (ben 59mila tonnellate all’anno) passano da Asia, Europa o Stati Uniti, per arrivare al porto di Iquique in Cile ed essere rivenduti in America Latina. Ciò che non può essere venduto, finisce nel deserto più arido del mondo, l’Atacama, creando così ulteriori dune, ma non di sabbia.

Il nostro speciale VIDEO per capire l’impatto ambientale della fast fashion.

Quali sono i marchi di fast fashion?

Con questo termine si identificano tutti quei vestiti di medio-bassa fattura che si acquistano a prezzi contenuti nei negozi delle grandi catene. Tra i marchi globali più noti spiccano Benetton, H&M, Zara, Temu, Mango, Napapirji, OVS, Original Marines, Pull & Bear, River Island, Shein, Uniqlo, per citarne alcuni.

Shein con i suoi vestiti super economici e alla moda è diventata uno dei più grandi rivenditori di abiti al mondo. A pagare il prezzo di questo successo sono i lavoratori del brand, come dimostra un’indagine condotta dall’organizzazione svizzera Public Eye all’interno degli impianti di produzione dell’azienda situati a ovest del villaggio di Nancun, nell’area di Guangzhou, nel sud della Cina. Ci sono operai che cuciono vestiti anche per più di dodici ore al giorno, per sei o sette giorni a settimana, e solo un giorno libero al mese.

Un’altra indagine condotta da Greenpeace Germania su 47 prodotti Shein acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera, “il 15% hanno fatto registrare, nelle analisi di laboratorio, quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”. In altri quindici prodotti (32%) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli preoccupanti, “a dimostrazione del disinteresse di SHEIN nei confronti dei rischi ambientali e per la salute umana“, si legge nel rapporto. Questi prodotti sono da considerarsi illegali a tutti gli effetti.

Quanto inquinano i resi?

Abiti venduti e resi più volte, pacchi di vestiti che viaggiano anche per decine di migliaia di chilometri tra l’Europa e la Cina, senza costi per l’acquirente e con spese irrisorie per l’azienda produttrice, ma con enormi danni ambientali. Questo è quanto emerge dall’indagine condotta dall’Unità Investigativa di Greenpeace Italia che per quasi due mesi, in collaborazione con la trasmissione televisiva Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi d’abbigliamento del settore del fast fashion acquistati e resi tramite piattaforme di e-commerce.

La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti“, ha dichiarato Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia – Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta“.

Per vedere i risultati dell’indagine QUI

I pacchi di Shein e Temu intasano il traffico aereo

La rapida ascesa dei due rivenditori di e-commerce fast fashion, Shein e Temu, sta intasando il settore globale del trasporto aereo di merci. I due colossi cinesi sono sempre più in competizione per garantire rapidità nelle consegne ai propri consumatori.

Shein e Temu insieme inviano quasi 600.000 pacchi negli Stati Uniti ogni giorno e spediscono quasi tutti i prodotti direttamente dalle fabbriche del paese asiatico indirizzandoli a clienti in tutto il mondo.

“La tendenza più importante che incide sul trasporto aereo di merci in questo momento non è il Mar Rosso, ma le aziende cinesi di e-commerce come Shein o Temu”, come afferma Basile Ricard, direttore delle operazioni della Grande Cina presso Bollore Logistics.

Secondo i dati aggregati da Cargo Facts Consulting, Temu spedisce circa 4.000 tonnellate al giorno, Shein 5.000 tonnellate, Alibaba.com 1.000 tonnellate e TikTok 800 tonnellate. Ciò equivale a circa 108 Boeing 777 cargo al giorno, ha affermato la società di consulenza.

Il “cotone contaminato” di Zara e H&M 

Se avete vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara, probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”.
Si torna a parlare delle devastanti conseguenze ambientali della fast fashion. Protagonisti stavolta due grandi colossi del tessile, H&M e Zara, accusati di produrre i loro vestiti con “cotone sporco“.

La denuncia arriva da una Ong britannica, Earthsight, con il rapporto dal titolo Fashion Crimes, secondo cui i due marchi europei sarebbero “vincolati” ad attività illegali di deforestazione su larga scala in Brasile, quali esproprio di terre, corruzione e violenza nelle piantagioni di loro proprietà.

Francia, multe per i rivenditori di fast fashion

In Francia l’Assemblea nazionale ha approvato una proposta di legge presentata a fine febbraio dalla parlamentare Anne-Cécile Violland con l’obiettivo di imporre un sovrapprezzo ai marchi di fast fashion che venderanno nel Paese i loro capi.

Il sovrapprezzo iniziale sarà di 5 euro per tutti i capi prodotti dai marchi fast fashion e potrà arrivare fino a 10 euro per un singolo capo di abbigliamento entro il 2030.

Ma in Italia sarebbe possibile tassare i brand di fast fashion per i loro prodotti? Credo sia molto difficile far passare un messaggio di questo tipo quando in Italia ancora non c’è la consapevolezza che abbiamo un grosso problema”, ha spiegato in un’intervista a TeleAmbiente Emma Pavanelli, portavoce MoVimento 5 Stelle alla Camera dei deputati Commissione attività produttive.

Come combattere la fast fashion: le alternative sostenibili

Se da una parte i consumatori sembrano aver sviluppato una maggiore consapevolezza del lato oscuro della fast fashion e, quindi, una maggiore attenzione nei loro acquisti, anche le aziende negli ultimi hanno intrapreso un percorso sempre più incentrato sul concetto di moda sostenibile.

Tenendo gli occhi aperti su quei brand che praticano solo greenwashing, ovvero si dichiarano sostenibili diffondendo informazioni false o capaci di ingannare i consumatori, vi consigliamo alcune alternative realmente green, tra queste alcune Made in Italy.

L’azienda di Prato Rifò produce capi con materiali riciclabili e attraverso fibre tessili rigenerate, come ha spiegato in un’intervista a TeleAmbiente il founder di Rifò Niccolò Cipriani. “Rifò nasce con l’obiettivo di riprendere la tradizione di Prato, valorizzando i vecchi indumenti e trasformandoli in nuova fibra e in un nuovo filato. Questo impegno nasce soprattutto per creare un’alternativa alla fast fashion, quindi ad un consumo senza limiti di risorse naturali, prodotti chimici, coloranti e anche delle persone, per produrre qualcosa che ha poco valore e che dopo pochissimo tempo buttiamo via”.

I jeans ecologici di un’azienda di Bergamo Par.co Denim, realizzati con cotone biologico per ridurre nettamente le emissioni e i consumi di acqua, eliminare le sostanze tossiche e pericolose e rendere i capi più salutari per chi li indossa. “La nostra filiera è concentrata nella provincia di Bergamo dove lavoriamo con piccoli artigiani riuscendo a gestire tutta la produzione in un’area compresa tra i 30 e 40 km dalla nostra sede. Siamo partiti dall’idea di trovare un modo per essere sostenibili non solo in termini di materie prime ma anche come approccio ai fornitori, all’intera filiera e puntando su una produzione locale”, ha spiegato a TeleAmbiente Matteo Parimbelli, co-founder di Par.co Denim.

Miomojo è un’azienda di accessori cruelty-free con sede a Bergamo che produce borse dal caffè, mais, cactus, scarti di mela e plastica riciclata. ” Ci sono tante possibilità oggi che hanno un impatto sull’ambiente molto inferiore rispetto ai vecchi materiali, soluzioni innovative e che non consumano nuove risorse”, ci ha raccontato in un’intervista la fondatrice di Miomojo, Claudia Pievani.

5 documentari per capire cosa è la fast fashion

1)The True Cost

Conosciamo fino in fondo il vero costo degli abiti che indossiamo? Il film documentario “The True Cost”, girato in diversi Paesi del mondo, alterna immagini delle passerelle più importanti a quelle dei sobborghi più disagiati, dove viene realizzata la gran parte dei capi presenti sul mercato.  E chi paga davvero questo prezzo?

2) River Blue

L’industria dell’abbigliamento, specie quella dei jeans, sta contribuendo alla degradazione ambientale a causa dei processi produttivi inquinanti, responsabili della perdita della biodiversità di diversi fiumi. Questo è lo scenario denunciato da River blue. Il documentario rappresenta un viaggio alla scoperta dello stato dei corsi d’acqua in prossimità degli stabilimenti tessili in Cina, Bangladesh e India.

3) The Machinist

The Machinists è il documentario che dà voce ad alcuni operai del Bangladesh che producono capi di moda per il nostro Paese, lo sfruttamento dei lavoratori tessili con le storie personali di tre giovani donne che lavorano nelle fabbriche di Dhaka.

4) Textile Mountain

Dove finiscono i nostri abiti usati?​ Textile Mountain risponde a questa domanda con documentario che mostra il ​devastante impatto ambientale dei nostri vestiti usati. Imballati in grossi sacchi, i capi vengono spediti rivenduti nel sud del mondo e quelli troppo rovinati per vengono ​invece gettati nei fiumi e nelle discariche locali.

5) Fashion Factories Undercover

In Fashion Factories Undercover due coraggiose operaie tessili indossano telecamere nascoste per mostrare le vere condizioni di lavoro  in Bangladesh. E poi le immagini forti del crollo di Rana Plaza, il disastro che ha portato agli occhi del mondo la terribile verità sull’attuale industria della moda.

 

La moda fast ci ha abituato ad acquistare compulsivamente, acquistando abiti che magari non indosseremo nemmeno una volta. Basterebbe comprare massimo 5 capi l’anno (non di fast fashion) per essere sostenibili, come afferma il report “Unfit, Unfair, Unfashionable: Resizing Fashion for a Fair Consumption Space.

E voi riuscireste a farlo pensando che questa abitudine ridurre notevolmente l’impatto ambientale dell’industria della moda? Accettate la sfida, fatelo per il vostro pianeta!

May 25, 2024 at 02:00PM

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