Alex Bellini, vita da esploratore: “Ho il gene Ulisse, nell’Atlantico stavo morendo di fame” – La Stampa

Alex Bellini, vita da esploratore: “Ho il gene Ulisse, nell’Atlantico stavo morendo di fame” – La Stampa

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Professione esploratore. Alex Bellini ha attraversato oceani a remi, deserti a piedi e ghiacciai in slitta. «Ho il gene Ulisse, lo chiamano così, non posso fare a meno di partire», racconta. Le sue destinazioni superano ogni volta nuove colonne d’Ercole. Nato 45 anni fa ad Aprica (Sondrio), ora di casa a Trieste, Bellini ha ricordi di viaggio da riempirci un’enciclopedia. «All’inizio la mia era una passione per lo sport, che si è avvicinata all’avventura per poi prendere la forma divulgativa che ha oggi: cerco di sensibilizzare il pubblico su grandi temi».

Il prossimo viaggio?

«Due spedizioni nelle regioni artiche per raccontare il cambiamento climatico dal suo epicentro. La missione si chiama Eyes on Ice».

L’impresa che le è rimasta nel cuore?

«La traversata oceanica a remi. Dopo due fallimenti, alla fine ce l’ho fatta: prima l’Atlantico e poi il Pacifico».

Il flop più clamoroso?

«Il primo tentativo sull’Atlantico. Sono partito da Genova il 10 ottobre del 2004: dopo sei ore mi sono fatto riportare a riva dalla Guardia costiera. Non c’erano le condizioni».

Come un turista della domenica.

«Anche peggio. L’oceano era diventato un’ossessione, avrei continuato a provarci fino a riuscire».

Quando è scattata la scintilla dell’esploratore, genetica a parte?

«Sono nato e cresciuto in un paesino di montagna, è una delle mie più grandi fortune. Fin da piccolo ho avuto un rapporto molto intimo con l’ambiente. Nella stagione morta per il turismo, mio padre si dedicava alle sue due passioni: il deserto e la moto enduro. I suoi racconti di viaggio mi affascinavano».

Tra una Marathon des Sables nel Sahara e una traversata dell’Alaska di duemila chilometri ecco che comincia la missione oceani.

«La mia vita doveva passare attraverso quel viaggio. Non era più qualcosa di accessorio. Sapevo di potercela fare, mi mancava il modo in cui riuscirci. Avevo tante risorse mentali, tante energie e anche un po’ di tempo da dedicare».

Il primo assalto si conclude subito malamente. Che succede ai tentativi successivi?

«Naufragio a Formentera dopo un mese. La terza volta sono entrato in mare consapevole di correre grossi rischi. E così è stato».

Ha mai avuto paura che fosse finita?

«Un esploratore ha sempre paura. E’ un’emozione che dà profondità ai viaggi e ti mette nelle condizioni di valutare il limite da non superare per sopravvivere. Mi spaventerò il giorno che non proverò paura».

Come è finita la terza spedizione atlantica?

«Dopo sei mesi di navigazione sono rimasto senza cibo e ho rischiato di morire di fame. Lì la vera fortuna è stata quella di avere un team di supporto che mi seguiva da terra e trovava soluzioni a ogni imprevisto. Non ero da solo a prendere decisioni da cui poteva dipendere la mia vita».

Che consigli le hanno dato?

«Mi sono stati vicini mentre remavo in condizioni di digiuno. Dopo tre giorni senza mangiare, ho incrociato una nave che mi ha rifornito di cibo. Poi ho raggiunto un piccolo arcipelago dove ho incontrato degli scienziati che mi hanno dato altri viveri. Un mese dopo ho raggiunto Fortaleza in Brasile».

E dopo undicimila chilometri e 227 giorni di sofferenza a rischio della pelle nell’Atlantico come le è venuto in mente di rilanciare la sfida a un altro oceano?

«Il Pacifico è stato il più grande successo della mia vita».

Ricordiamolo: dopo 18 mila chilometri e 294 giorni, lei attiva la chiamata di soccorso quando è a 65 miglia dalla costa e gira un video disperato. La sua impresa verrà poi convalidata.

«Temevo che quell’arrivo fallimentare avrebbe pregiudicato il resto della mia attività di esploratore. In realtà l’ha solo trasformata in qualcosa di migliore. All’epoca (era il 2008, ndr) cercavo di essere perfetto come la gente si aspettava. In realtà avevo definito un nuovo standard. Ed ero diventato più maturo».

Come si svolge la vita in sette metri e mezzo di barca?

«E’ tutto molto più facile nel momento in cui si crea una routine. Avevo a bordo cibo liofilizzato, un dissalatore per cucinare e pannelli solari che allora producevano 140 watt: tanto bastava a ricaricare l’attrezzatura di bordo, le luci di navigazione, il radar e l’Epirb, strumento che mi allertava del passaggio di altre navi, rendendo più tranquillo il sonno».

E in caso di tempesta?

«Mi chiudevo dentro, mi assicuravo di avere tutto ben legato e fissato alla barca, e indossavo un casco allacciato stretto per evitare traumi in caso di ribaltamento. Non nego che a volte mi facevo un bel segno della croce in attesa che passasse. Non c’era molto altro che potessi fare».

Sua moglie e le sue due figlie che le dicono quando parte?

«Mia moglie fa parte da 15 anni di questo progetto di vita, si occupa della parte legale, delle autorizzazioni e della comunicazione. Le mie figlie non dicono niente, anche se mi fanno percepire il peso delle assenze. Mi mettono in guardia dai pericoli, perché sopravvivere è il primo obiettivo di una missione. Ma se cambiassi vita per stare più vicino a loro, non sarei più me stesso».

Dopo aver provato acqua, ghiaccio e sabbia che ambiente sceglie?

«Scelgo l’acqua, anche se è un amore non corrisposto. Il mare sa essere molto violento».

Quali sono le prime cose che insegna nei suoi seminari?

«Primo, vivere il momento presente. Secondo, saper gestire le emozioni. Sono le basi per un atleta professionista».

Se la sentirebbe di allenare gli astronauti impegnati nelle prossime missioni spaziali?

«Le loro condizioni di isolamento e solitudine sono simili alle mie, però parliamo di gente molto preparata. Avrei più io da imparare da loro che viceversa. Certo che su Marte mi piacerebbe andare…».

May 30, 2024 at 01:20PM

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