Matteo Ward, il “piccolo principe” della moda sostenibile: la spiega al Nobel Usa Al Gore e a Ursula d’Europa – La Piazza
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“Abolire il fast fashion, produciamo 150 miliardi di vestiti che poi in gran parte finiscono in discarica”
“L’essenziale è invisibile agli occhi. Non si vede bene se non con il cuore”. La celebre frase del Piccolo principe potrebbe essere il manifesto della vita di Matteo Ward, 38 anni, imprenditore vicentino. Lo chiamano “il pentito della moda”, ma rende l’idea a metà: i pentiti sono utili, sì, ma non sono mai simpatici perché marchiati dallo stigma del tradimento. Invece recupera l’essenza dei valori, questo si coglie subito. L’etichetta di pentito gliel’ha cucita addosso Olmo Parenti, regista di Junk – Armadi pieni, la docuserie di Sky di cui è protagonista proprio Matteo, che va in giro per il mondo a mostrare qual è il costo sociale della moda, quello che non si vede di solito con gli occhi, ma che fa male al cuore quando ti rendi conto della disperazione sociale che crea, degli sfruttati, soprattutto le donne e i bambini che ne sono vittime, quando si scopre il prezzo ambientale che la Terra paga in Ghana, Cile, Indonesia, India per produrre vestiti e gettarli nelle discariche. In quella di Accra ne arrivano 15 milioni alla settimana e sono soprattutto vestiti mai indossati né venduti, usciti dai magazzini. “Ne abbiamo gli armadi pieni del finto design: 150 miliardi di vestiti, 48 miliardi di scarpe. Bisogna reinventare la funzione della moda. Il cibo è fatto degli stessi ingredienti dei vestiti, pensa al lino. Ma il cibo non si butta, i vestiti sì”.
Ecco il punto: Matteo è ostinatamente convinto che un mondo migliore si possa costruire anche nell’industria dell’abbigliamento. Non denuncia soltanto ma è convinto che il cambiamento sia ancora possibile, che la sostenibilità sia una strada obbligata e vincente.
Alle spalle ha studi impegnativi: liceo al Pigafetta, una laurea alla Bocconi e un’altra a Cambridge, un lavoro di prestigio a New York per sei anni da Abercrombie & Fitch fino al 2013, quando il crollo del Rana Plaza a Dacca, una fabbrica tessile, con 1.153 vittime lo fa riflettere. Rivoluziona la sua vita e il suo lavoro. Trova i finanziatori, tra cui Susanna Martucci e Mara Cavedon, e fonda una start up: la chiama Wråd, nome che fonde i termini americani raw (crudo) e rad (fighissimo) con la “w” che ricorda il suo cognome e con quel circoletto sopra la “a” che è un omaggio alle radici norvegesi del papà americano. Gli scappa detto: “Se potessi mostrare al papà quello che ho fatto…”. È il dolore di tanti figli che hanno perso giovani il padre. Lui, Mike Ward, che è stato un protagonista dell’alta finanza, di sicuro sarebbe orgoglioso del suo ragazzo: definito da Capital uno dei 40 giovani leader in grado di cambiare l’Italia, qualche settimana fa Matteo Ward ha parlato a Bruxelles al New european Bauhaus, invitato dal team di Ursula von der Layen. Lo apprezzano talmente che l’hanno messo perfino sotto contratto come consulente. Intanto mostra con un po’ di ritegno la mail che ha ricevuto da Al Gore, premio Nobel per l’ambiente e la sostenibilità: l’ha invitato a parlare a fine giugno a Roma. Matteo ha la mamma Grazia Fortuna che è artista e una sorella, Anna. E poi c’è il suo padrino di battesimo, Lino Dainese, che lo guarda da lontano e con poche parole lo approva: “Bravo el bocia”.
Ma cosa fa esattamente Matteo Ward? Nel 2015 aveva cominciato a produrre magliette sostenibili, poi s’è reso conto che le aziende avevano bisogno soprattutto di idee. Gli hanno creduto Acqua di Parma, Ferragamo, Tom Hilfiger, Luxottica, tanto per citarne qualcuno. La sua azienda, che ha sede a Vicenza in piazza Biade, a Milano e a Londra (“ma è un ufficio piccolissimo”, precisa) non arriva al milione di euro di fatturato e ha dieci dipendenti: “Elaboriamo – spiega – progetti di design di prodotto e servizi, che si accompagnano alla co-progettazione di oggetti. Naturalmente il tessile è il primo settore”. Mostra orgoglioso una giacca confezionata con un tessuto che assorbe la luce e la emette di notte: “Si può essere eleganti, sostenibili e sicuri – conclude – senza le strisce fosforescenti addosso”.
L’uomo è indubbiamente affascinante per l’energia che trasmette; molto sorridente, diffonde una candida serenità come Il piccolo principe ma è sempre travolto in mille occupazioni, sia che legga di Alice Hamilton, la prima donna docente ad Harvard nel 1919, esperta di tossicologia industriale oppure Il vestito antineutrale di Marinetti, il manifesto contro il vestire “avvilito dal nero e soffocato da cinture” che era una rivoluzione cento anni fa.
Adesso la rivoluzione l’ha innescata lui e la credibilità di cui s’è circondato conferma che sta seminando bene e trova orecchie attente a quello che spiega. Come in tutti i tempi, le voci solitarie nel deserto servono a poco. Ci vuole anche la fortuna (e l’intelligenza) di parlare di cose giuste al momento giusto. Matteo mostra il polso: “Mi ero ripromesso che se l’azienda avesse funzionato dopo cinque anni mi sarei tatuato il nome. Eccolo qui”. Certo che se va a letto alle nove di sera e si sveglia alle quattro e mezza la mattina, il nostro profeta della moda sostenibile mette in fila parecchie cose durante la giornata: “Non ho la soluzione in mano – spiega – Ma cerco di capire come siamo arrivati all’insostenibilità”. E promuove antidoti. Primo, non sprecare. Quando due anni fa s’è sposato a villa Valmarana ai Nani con Ludovico Crisi, nel biglietto d’invito c’era una raccomandazione: “Dress Code? Nah – Dress Freedom: vanno benissimo quel vestito, pantalone o camicia che già avete nell’armadio, che amate e che avreste messo per divertivi in libertà per una festa!”.
Se il primo comandamento è la sobrietà, il secondo riguarda la sicurezza e la salute: “La pelle è l’abito più sostenibile – spiega – Ma il 65% delle malattie della pelle è trasmesso da quello che ci mettiamo addosso”. Da questo assioma derivano alcuni corollari. “Abolire il fast fashion”, per esempio. Oppure: “Non puoi sentirti sicuro se l’aria che respiri non è buona, se i vestiti che indossi sono prodotti di violenza”. “Creatività e tecnologia pulita s’incastrano per definire nuovi percorsi per l’industria”. E soprattutto: “L’abito può cambiare l’habitat e le abitudini”. Una prova? “Non è sempre stato vero che esistono le stagioni della moda, primavera/estate e autunno/inverno. Se l’inventò nel 1678 il Mercure Galante con Colbert ministro dell’economia di Luigi XIV”. Morale: se abiti e abitudini cambiarono allora, possono cambiare anche oggi. “Non rinnego il piatto in cui ho mangiato. Se non amassi la moda, non mi comporterei così: c’è bisogno di un cambiamento e noi spingiamo in questa direzione”.
A Vicenza, naturalmente, vive pochi giorni al mese ma ha idee chiare anche sulla città: “Vicenza oggi mi fa quasi paura, la vedo stanca e appassita. Gliel’ho detto anche al sindaco. L’imprenditoria locale non investe sulla città e poi si lamenta. Ma se non investite voi chi lo dovrebbe fare? L’impresa è nata proprio per sopperire alle lacune pubbliche. Basti pensare a Valdagno, a Schio o a Biella”.
Ultima curiosità. Luca Ward, il celebre doppiatore de Il gladiatore (“Mi chiamo Massimo Decimo Meridio…”) è solo un omonimo. “Qualche volta ne ho approfittato – ammette Matteo – e ho risposto che è di famiglia, stanco di tutte le volte che me l’hanno chiesto”. Ricordate Massimo Troisi che, disperato pr le continue richieste, ammette di essere un emigrato da Napoli anche se non lo è? Stessa cosa.
Antonio Di Lorenzo
May 31, 2024 at 11:12AM