Matteo Ward e Lorenzo Bertelli: mettili allo stesso tavolo e fonderanno un partito. Il programma? Una moda pi… – la Repubblica
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Mettili allo stesso tavolo e fonderanno un partito. Il programma ce l’hanno già: una moda più sostenibile e quindi capace di ridare il giusto valore alle cose. Se così fosse, «nel partito entrerebbe anche mia madre Miuccia», scherza Lorenzo Bertelli, manager ai vertici di Prada, sorridendo a fianco di Matteo Ward, fondatore di Wråd e autore di Junk: Armadi pieni, documentario che accende i riflettori sul fast fashion e sulla sua ormai conclamata insostenibilità.Non si conoscevano, li abbiamo fatti incontrare per la prima volta: un confronto sul futuro dell’industria fashion tra chi, come Ward, veniva dalla moda ma l’ha lasciata per raccontarne il lato oscuro e chi, come Lorenzo, da quando è diventato head of corporate social responsibility del gruppo Prada, investe sempre più in progetti di sostenibilità quali Re-Nylon (recupero dei rifiuti plastici per produrre capi) e Sea Beyond, programma educativo sugli oceani. Fra loro si direbbe sia scattata una scintilla.
GIACOMO TALIGNANI: Qual è il vostro primo ricordo della natura?
MATTEO WARD: «Io sono metà di Seattle e metà vicentino. Mio padre mi portava quattro mesi all’anno tra orsi, fiumi con salmoni e alberi, andavamo a cavallo. È sempre stato un rapporto simbiotico quello con la natura. Tornando in Italia all’improvviso mi mancavano il profumo, il suono e l’amore di quei luoghi».
LORENZO BERTELLI: «Per me – me ne rendo conto solo ora – qualcosa deve essere scattato con lo sci, che è sempre stata la mia passione. Ricordo un primo inverno, forse a 10 anni, in cui non c’era la neve ma le margherite: fu traumatizzante. Credo che quel momento fu un primo innesco della consapevolezza tra cambiamenti ed equilibri della natura».
GT: E con la moda? Praticamente entrambi ci siete nati “dentro”.
LB: «Per me da bambino era solo il lavoro dei miei genitori. Ancora oggi, non facendo il designer, non credo di avere una mia idea creativa di moda. Ma viaggiando con i miei, è scattata una curiosità per il pensiero culturale dietro l’estetica delle cose».
MW: «Mio padre produceva abbigliamento tecnico: per me era una rottura perché la casa era invasa dai campionari. E poi, siccome già li avevamo, ero obbligato a usare quei prodotti, anche se non mi piacevano. Crescendo mi sono convinto che non avrei mai lavorato nella moda, volevo fare il politico. Ma alla fine ci sono rimasto impigliato, un po’ per caso».
GT: Quando si uniscono moda e natura?
MW: «Nel momento in cui ho capito che si poteva fare politica attraverso la moda. Quando nel 2013 è crollato Rana Plaza (fabbrica tessile in Bangladesh in cui ci furono migliaia di vittime, ndr) mi sono chiesto cosa stavo facendo. Prima non mi ero mai domandato dove, come, con chi producevamo jeans o T-shirt. Ho iniziato a interrogarmi ed è partito tutto».
LB: «Per me, invece, è stato un percorso. Il pensiero culturale della famiglia sulla sostenibilità c’era già, ma notavo che non era così permeato in tutta l’azienda, mancava consapevolezza. Così ho tentato di portare in Prada il tema in modo più metodico».
GT: Oggi però il fast fashion sta sfruttando sempre più risorse del pianeta. Dovremmo porci dei limiti?
LB: «Noi e il fast fashion siamo diversi. Ma in generale posso dire che per ritrovare equilibrio la cosa più importante è cambiare la mentalità del consumatore. O la cambia la politica o le aziende nel privato. Dobbiamo vedere la sostenibilità non come un costo, ma come un mezzo per ridare il giusto valore alle cose. Se il capitalismo funziona bene, allora sarà il più grande acceleratore in ottica di sostenibilità. Tutti devono sapere che se comprano una maglietta di cotone a 5 euro, c’è qualcosa che non va: quello non può essere il giusto valore. Finora parte del mondo della moda ha chiuso un occhio sul welfare delle persone e la sostenibilità pur di far comprare tanto a poco. Ma non va più bene, dobbiamo smontare la grossa illusione che tutti possiamo permetterci tutto».
MW: «Concordo con Lorenzo, spesso nelle scuole mi dicono che un vestito è troppo caro. Ma non è che ci siamo abituati al fatto che tutto nella moda veloce costa troppo poco? Ci stiamo dimenticando il reale valore delle risorse umane e naturali per realizzare qualcosa. Il primo step è riconsiderare il valore di un prodotto, ma questo va raccontato bene».
GT: Come si comunica il cambiamento?
LB: «La capacità comunicativa è il problema di questo periodo storico. Ma la storia insegna che possiamo riuscirci: nel food, per esempio, è accaduto. Oggi sai che se i prezzi di una trattoria salgono è perché i cibi di qualità costano. Comunicare la sostenibilità è però più complesso».
MW: «Da bambino ti insegnano che non devi sprecare cibo, lo stesso va fatto con la moda. Ma mentre con il cibo si ha un approccio più razionale – a meno che non sei come me che non resisto al cioccolato (ride, ndr) – nella moda l’acquisto è una questione emotiva. Dobbiamo applicare la consapevolezza del funzionamento del cervello quando acquistiamo, alla creazione di campagne che possano ispirare comportamenti virtuosi».
GT: In questo la politica può aiutare?
LB: «Pensare che oggi un privato possa fare da solo senza il pubblico è follia. La politica serve, ma dovrebbe ritrovare la dimensione del fare le cose che sono giuste».
MW: «Ho trovato il mio partner politico! Concordo, ci sono sfere che la politica non può più ignorare. Deve occuparsi degli impatti della moda sulle risorse, del fatto che l’8% delle malattie della pelle è causato dal contatto con sostanze tossiche, della gestione di tutti quei rifiuti del fast fashion che non vediamo perché li buttiamo dall’altra parte del mondo e si stratificano in Ghana o in Cile. Per fermare l’ultra fashion i francesi hanno capito l’importanza di legiferare: la moda è al centro delle agende politiche. Perché non lo facciamo anche in Italia? Per fortuna, anche se con timidi passi, l’Ue ci sta provando».
GT: Qual è il ruolo dei social?
LB: «Mi appassionano ma li uso poco, alcuni non li ho nemmeno scaricati, ma devo ammettere che aiutano ad accelerare tematiche come la sostenibilità. Usiamoli bene: come le altre scoperte tecnologiche possono mostrare l’idea che con la sostenibilità si può generare profitto».
MW: «Oggi sui siti dei brand c’è sempre una pagina su trasparenza e tracciabilità, cosa che pochi anni fa non esisteva. Sapete perché? Nasce da un hashtag (#whomademyclothes) lanciato sui social per chiedere la provenienza dei vestiti. Ha coinvolto più di mezzo miliardo di persone e improvvisamente non solo le aziende si sono adeguate, ma ora anche la Commissione europea pensa a direttive sulla tracciabilità».
GT: Come facciamo a rendere cool la sostenibilità?
LB: «Comunicandola bene. Dobbiamo spiegare che se ti vesti in maniera sostenibile sei più cool. La vera rivoluzione saranno le nuove generazioni, che lo stanno già capendo. Abbiamo l’intelligenza e la conoscenza tecnologica per vivere in equilibrio con la terra, ma dobbiamo adattarci. Quando i consumatori hanno preso conoscenza del cibo mangiato al fast food, hanno cambiato quel settore. Lo stesso può accadere con il fast fashion».
MW: «Quando vado nelle scuole e descrivo come è fatta una maglietta organica si distraggono. Se invece dico loro semplicemente che la stessa T-shirt fa la pelle più figa allora tutti la vogliono. Lavoriamo su questa comunicazione e puntiamo sulla durabilità. Ricordiamoci sempre che il grande elefante nella stanza è un sistema che produce 150 miliardi di capi d’abbigliamento ogni anno: è troppa roba ed è fatta molto male».
LB: «Non solo, mostriamo ai ragazzi sempre nuove referenze, alternative per distinguere cosa è meglio o peggio, per crescere. Faccio un esempio strano: una volta un ragazzo e una ragazza sono entrati in Fondazione Prada e al cancello, non riconoscendomi, mi hanno chiesto dove fossero i funghi allucinogeni. All’inizio non capivo, poi ho intuito che parlassero dei funghi dell’artista Carsten Höller, opera d’arte nella Torre. Per me fu una soddisfazione: tramite il brand avevamo portato persone diametralmente opposte al tipo di cultura museale a visitare qualcosa di nuovo, a dar loro alternative».
GT: Esprimete un desiderio: che mondo vorreste per il 2050?
LB: «Da neo padre, vorrei che per i bambini di tutto il mondo la parola sostenibilità entrasse nella quotidianità. E che l’Italia non fosse più solo il Paese dove tutti parlano di cibo, ma quello in cui tutti ragionano su come far bene all’ambiente».
MW: «Io invece mi auguro di essere disoccupato (oggi è consulente per la sostenibilità, ndr). Se verrà normalizzata la parola sostenibilità nel 2050, ben venga: vorrà dire che avremo imparato a dare sacralità e giusto valore alle cose».
PROFILE
Lorenzo Bertelli, 36 anni, è figlio di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Laureatoin Filosofia, è appassionato di rally (ha partecipato al mondiale Wrc) e di sci. Siede nel consiglio di amministrazione di Prada dal 2015 e ricopre la carica di Head of corporate social responsibility del gruppo Prada. Lo scorso ottobre è diventato padre di Athena.
Classe 1986, Matteo Ward è un imprenditore impegnato nel campo della moda sostenibile. Nato da madre vicentina e padre americano, ha studiato Economia internazionale all’Università Bocconi e Business sustainability management all’Università di Cambridge. Dopo sei anni in Abercrombie & Fitch si è licenziato per impegnarsi a «cambiare il sistema della moda». Oggi è amministratore delegato eco-fondatore di Wråd, benefit corporation.
June 15, 2024 at 01:18AM