Paolo Di Lazzaro (Enea): «Così prepariamo i nuovi materiali per le basi spaziali» – ilmessaggero.it
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Lunedì 29 Luglio 2024, 00:25
Le missioni sulla Luna e su Marte sono il preludio di un futuro in cui l’uomo di domani vivrà una sempre minore separazione tra vita terrestre ed extra-terrestre. Ma l’esposizione di periodi prolungati oltre l’atmosfera mette a rischio l’incolumità degli astronauti e provoca il deterioramento dei materiali; infatti la ricerca nel campo aerospaziale continua a sviluppare e sperimentare nuovi materiali più resistenti in grado di resistere più a lungo alle radiazioni solari. È il caso di Enea che ha sviluppato una tecnologia con cui condurre test accelerati per valutare gli effetti della radiazione ultraviolette sui materiali impiegati nelle missioni spaziali di lunga durata. Ne abbiamo parlato con Paolo Di Lazzaro, ricercatore del Laboratorio Enea di Fusione inerziale, plasmi ed esperimenti interdisciplinari».
Come è nato il progetto?
«È nato nel 2017 su commessa esterna di un’azienda che doveva realizzare un impianto di irraggiamento per provare la resistenza alla radiazione ultravioletta di materiali usati in ambito aerospaziale per un progetto internazionale coordinato dall’Agenzia Spaziale Europea. Il nostro laboratorio Eccimeri, presso il Centro Ricerche Enea di Frascati, sin dal 1985 si occupa di questo tipo di ricerche, per cui era perfettamente in grado di soddisfare questa richiesta».
Per quale motivo c’è bisogno di sviluppare nuovi materiali per lo spazio?
«I materiali che si trovano fuori dall’atmosfera terrestre, sono sottoposti al bombardamento del cosiddetto vento solare, una mescolanza di elettroni, neutroni, particelle alfa, radiazioni ionizzanti. Per nostra fortuna, il campo magnetico terrestre è in grado di deviare le particelle con carica elettrica, mentre la parte elevata dell’atmosfera assorbe gran parte della radiazione ionizzante e dei neutroni. Senza questi schermi, la vita sulla Terra sarebbe impossibile. Tuttavia, appena un satellite, una navicella spaziale e i relativi strumenti escono dall’atmosfera terrestre e orbitano intorno alla Terra, essi sono soggetti al vento solare. Il vento solare può deteriorare i materiali con cui sono costruiti i satelliti, mettendo a rischio la loro stabilità meccanica, oltre a incidere sull’efficienza dei componenti elettronici e ottici che garantiscono il funzionamento e il controllo degli stessi satelliti. Tutte le agenzie spaziali sono alla ricerca di nuovi materiali sia per aumentare la loro vita media, sia per ridurre il rischio di malfunzionamento che può portare a conseguenze drammatiche».
Le future missioni nello spazio saranno sempre più lunghe. Quali sono i rischi maggiori di questa esposizione, al ritorno sulla terra?
«I rischi per gli organismi viventi, gli esseri umani, ma anche piante e semi che escono dall’atmosfera terrestre sono molteplici. I due rischi più conosciuti sono quelli osteoporotici causati dalla mancanza di gravità, e quelli del danneggiamento cellulare causato dalla prolungata esposizione al vento solare, sia diretto, durante le passeggiate spaziali, sia indiretto, provocato dalle particelle e radiazioni secondarie, generate dell’interazione fra vento solare e materiali della struttura esterna, che entrano dentro le stazioni orbitanti».
Mi racconti la tecnologia del sistema che ha progettato Enea. Come è fatto?
«La sorgente di radiazione ultravioletta è costituita da una lampada posizionata sopra una camera cilindrica raffreddata ad acqua. I campioni da irraggiare sono posti nella camera che viene riempita di gas inerte allo scopo sia di evitare l’ossidazione dei campioni, sia di trasferire il calore all’intera superficie delle pareti della camera limitando a 40°C la temperatura massima. La pressione, l’intensità della radiazione UV e la temperatura dei campioni sono monitorati da un sistema di acquisizione dati gestito da remoto, in grado di disattivare automaticamente la lampada in caso i parametri escano dall’intervallo consentito. Il controllo remoto è di importanza fondamentale perché il funzionamento della lampada non richiede la presenza di operatori e funziona 24 ore, tutti i giorni, fino a raggiungere la dose richiesta».
Cosa permette di testare?
«Rispondo con un esempio. Il committente chiede di fare un test di resistenza di un materiale alla radiazione ultravioletta per 3.600 ore solari, ovvero 150 giorni, fuori dall’atmosfera terrestre. Calcolata la dose richiesta, e misurata l’intensità ultravioletta della nostra lampada, misuriamo il tempo di irraggiamento necessario per raggiungere la dose richiesta. Di solito, si tratta di una durata di irraggiamento da 5 a 7 volte inferiore alle ore solari equivalenti. In altri termini, con il nostro apparato otteniamo in 20-30 giorni l’effetto che la parte ultravioletta del vento solare genera in 150 giorni. L’innovazione del nostro sistema non è tanto nell’apparato usato, quanto nel nostro pluridecennale know-how di gestione e misura assoluta di intensità ultravioletta. Insieme ai colleghi Daniele Murra e Sarah Bollanti formiamo un team con grande esperienza nella generazione e misura delle radiazioni ionizzanti, le cui caratteristiche non sono facili da registrare con accuratezza e precisione».
La vostra innovazione cosa potrebbe cambiare nelle missioni spaziali?
«Guardando al futuro immediato, abbiamo realizzato un nuovo prototipo di lampada ultravioletta a LED in grado di replicare con grande precisione lo spettro ultravioletto emesso dal Sole, cioè, l’insieme di tutte le possibili frequenze della radiazione ultravioletta, ciascuna con la sua energia; questa lampada ha caratteristiche particolari che rappresentano un unicum, non ce ne sono altre simili, e consentirà di fare test di resistenza sempre più affidabili, replicando con estrema precisione le effettive condizioni di stress subite dai materiali usati nelle missioni spaziali».
July 29, 2024 at 12:45AM